ZOOM COME ThEATRUM. APPUNTI PER UNA NUOVA ESTETICA.

A pensarci bene Zoom non esisteva fino a poco, pochissimo tempo fa. 
Aspettate, forse è meglio riformulare questa frase: Zoom esisteva eccome, ma più nel nostro immaginario che nella realtà. Come tante altre sue cugine più o meno lontane, fino a poche settimane fa questa app non era mai stata considerata una parte integrante del nostro vivere. Eppure in poco tempo telelavoro, didattica a distanza e isolamento sociale hanno reso la piattaforma gratuita una necessità.
I download giornalieri dell’app ci dimostrano quanto Zoom abbia inciso sulle nostre abitudini. Su scala globale, sono passati da 171mila di metà febbraio a 2,41 milioni di fine marzo, con un incremento del 1.300% [1]. Al tempo stesso sarebbe riduttivo semplificare l’intera questione e considerare Zoom come unico protagonista, quando nelle ultime settimane sono prolificati tanti altri servizi simili: Google Meet, FaceTime, Whatsapp, Jitsi, Houseparty fino all’arrivo di Facebook Rooms. A pensarci bene l’unico a mancare all’appello è il veterano Skype, che fatica a competere con le piattaforme più recenti.
Presa coscienza del vasto panorama che ci circonda in qualità di produttori-spettatori (per semplicità utilizzeremo più spesso il termine “utenti”) bisogna però constatare quanto Zoom la faccia da padrone, complice la facilità di accesso e la possibilità di condivisioni live sui Social Network. Inoltre, nel pensare alla loro capacità virale, è senz’altro lui il fiero e aitante responsabile di ogni genere di contenuto visivo: dirette streaming, webinar, meme e screenshot di qualsivoglia momentum-mementum.
Tutte queste esperienze sono riconducibili al concetto di cultura partecipativa, un aspetto fondamentale della web culture, ed è proprio dall’osservazione della diffusione visuale sul web di queste immagini-schermo che prende avvio questa breve riflessione.

Se si osservano le interazioni durante le video call su Zoom, si possono riconoscere alcuni cambiamenti nei nostri comportamenti. Le conseguenze di questa tendenza sono così rilevanti che è stato coniato il termine zoom fatigue, espressione che non riguarda solo gli aspetti psicologici relativi al nostro rapporto con lo schermo, ma tiene conto soprattutto del nostro modo di relazionarci all’output visivo dell’applicazione stessa. 
Questi fattori hanno pervaso a tal punto la realtà e la cultura visiva che Zoom sta diventando a sua volta un social network. Video, chat e condivisione dello schermo, strumenti inizialmente progettati per lavorare, ci mostrano quanto i meeting abbiano il potenziale di inglobare la maggior parte delle caratteristiche dei social, ovvero immagini, messaggi e condivisioni.
In questo modo, il progressivo slittamento all’utilizzo dell’app ha influenzato in poche settimane il nostro universo visivo, con inevitabili conseguenze sull’estetica e sulla comunicazione, e lo ha fatto a tal punto che nei nostri feed appare persino l’Ultima Cena di Leonardo, che viene risemantizzata e rilocata online, al di là della prospettiva rinascimentale. Inoltre, le funzionalità dell’app assumono il ruolo di cornice, che definisce un altro mondo significante attraverso l’inquadratura; è accaduto per la foto-copertina del numero di maggio della rivista The Cut, il cui shooting è stato realizzato interamente su Zoom dalla fotografa Elizaveta Porodina. Persino realtà affermate come Studio Ghibli o Harper Bazaar, che non avrebbero certo bisogno di visibilità, mettono a disposizione sfondi tratti dai propri film o dalle proprie copertine per le nostre video conference [2].
Anche Frieze ha debuttato con l’articolo The Aesthetics of Zoom, titolo tanto programmatico quanto stimolante, per ripensare l’app nei termini di nascita di una nuova estetica. Sebbene l’autrice Orit Gat si mantenga scettica nei confronti di quello che definisce “a moment of unicorn-wifi-in-the-sky ‘niceness’”, Frieze segnala una comparazione interessante con l’estetica visiva della sitcom americana The Brady Bunch (1969–74), la cui scena introduttiva consiste in una griglia statica composta da diversi schermi, dentro ai quali appaiono i volti dei singoli attori protagonisti. E non possiamo non considerare sperimentazioni più recenti, come “Extra hot: the reunion”, puntata conclusiva del reality show Too Hot To Handle (2020) girata interamente tramite chat video; e Eschaton, in parte spazio di performance art, in parte nightclub, una sorta di teatro condotto su Zoom, con tanto di biglietto di ingresso a pagamento.
Per parlare di una nuova estetica è inevitabile, quindi, considerare il rapporto che intercorre tra Zoom e altri media. Il contenuto di un medium è sempre un altro medium, intuiva McLuhan, e noi non possiamo far altro che perseguire questa visione. A differenza delle interfacce presenti in altre video piattaforme come TikTok, Facebook e Instagram, che spesso propongono interazioni ludiche e ricorrono all’utilizzo di stickers, emoji ed effetti di editing, l’esperienza estetica di Zoom è differente. Come le altre piattaforme è universale, ma non si è posta la problematica di creare delle formule-passatempo per rendere la socializzazione online particolarmente divertente. È soggetta a poche, pochissime variazioni visive e ha predisposto la sola opzione di alternare differenti sfondi e un unico filtro chiamato “touch up my appearance”, che consiste nel ritoccare il display del video con una messa a fuoco morbida, così da ottenere – cito testualmente –  “a more polished looking” [3]. 

A partire dall’uso che io stessa ho fatto e faccio quotidianamente di Zoom e dei social media, ho avanzato una serie di considerazioni che ruotano intorno a una specifica distinzione. Attraverso l’interfaccia Zoom, la routine comportamentale e visiva dell’utente può infatti essere ricondotta a due principali modalità estetiche, che trovano un comune denominatore nel rapporto figura-sfondo [4]
In questo caso lo sfondo assume un duplice valore e si rifà non solo all’ambito pittorico ma anche a quello teatrale. Nel leggere questi paragrafi vi chiederei quindi di tenere sempre presente il legame indissolubile che si instaura tra scenografia (immagine di fondo) e palco (ossia lo spazio dell’azione, e quindi della figura). Nel caso di Zoom potremmo inoltre azzardare che siamo noi a essere il medium, poiché la nostra narrazione mediale contribuisce a una narrazione in itinere. Infatti, attraverso la piattaforma, agiamo e diventiamo veicolo di noi stessi, indipendentemente dal mondo dei media in senso stretto.
Il termine performance è il più indicato per definire tale atteggiamento, poiché sottintende la creazione di una composizione creativa più o meno mediata dello spazio in cui avviene (setting), almeno nella maggior parte dei casi. Per di più le video call di Zoom attivano in contemporanea più livelli di significazione: l’azione dell’utente-performer viene interpretata, filmata e al tempo stesso rimediata dagli utenti-spettatori, ed è trasmessa verso l’esterno, seppur si riferisca a uno spazio domestico di una camera da letto o di uno studio privato.
Nel proseguire nella lettura si dovrebbe tenere a mente un altro fattore, e cioè che in queste performance è sempre presente uno scarto tra lo strumento utilizzato (l’app, la cornice) e lo spazio (il palco, l’ambiente domestico in cui avviene l’azione). D’altra parte le scienze cognitive insegnano che a ogni forma di intermedialità soggiace a una relazione attraverso la quale ci rapportiamo alle cose del mondo.
La specificità in questione, in questo caso, è che ci troviamo in uno spazio indefinito, in un limbo tra lo spazio pubblico e quello privato, tra soggettività e intersoggettività. Quando attraverso l’interfaccia Zoom osserviamo le nostre video-performance, ci troviamo di fronte a entità autonome ma interdipendenti, un insieme di elementi e azioni che si e ci proiettano in uno spazio altro dal nostro, alle volte reale, alle volte virtuale. Eppure questa distinzione non è sufficiente. Perdonate il gioco di parole: occorre andare più a fondo nello sfondo
Anime Architecture (2020), pubblicazione di Thames & Hudson nata da una mostra omonima dedicata agli sfondi dei film d’animazione giapponesi, dimostra quanto lo scenario passi inosservato rispetto alla trama, nonostante riesca a rivelare molto della visione del regista [5]. In tal senso la narrazione esplicitata (ovvero il live stream) è solo ciò che appare in superficie, ed è invece il background a rappresentare lo sguardo dell’utente sulla realtà: un mondo silenzioso ma non neutrale, fatto di oggetti e costruzioni attraverso le quali comunicare in modo tacito la propria visione. Questa capacità di scelta dello spettatore permette di veicolare determinati valori culturali o sociali nelle videoregistrazioni, ed è un fattore che incide in modo più o meno conscio sul senso stesso delle elaborazioni delle immagini in movimento.
Arrivati a questo punto, possiamo definire a pieno titolo Zoom come spazio creativo e performativo. Il vero quesito che allora si dovrebbe porre è: come viene usato questo spazio? 

Se si tiene a mente il rapporto tra figura e sfondo per come lo abbiamo definito poco fa, l’estetica di Zoom può essere ricondotta a due dinamiche differenti: da una parte troviamo esempi che si appropriano del background interpretandolo come luogo della rappresentazione fittizia; dall’altra il background diventa un piano di presentazione solo apparentemente spontanea.
Nel primo caso, che definiremo piano della rappresentazione fittizia, mi riferisco al background come vero e proprio fondo, che permette all’utente di mostrare dietro di sé un’immagine, una fotografia o un video, che essi corrispondano o meno alla realtà non fa differenza. In molti casi vengono usati in maniera ironica e disorientante, in altri in maniera simbolica e più funzionale (senza dimenticare la modalità di sfocatura dello sfondo, più soft ma ugualmente straniante). Si tratta di soluzioni-avatar, adottate per non far vedere nulla di compromettente o più semplicemente per non mostrare il disordine intorno a noi, conferendo al riquadro della call (la cornice) quel non so che da terrorista latitante.
Incuriosita dalla questione, sul sito di Zoom trovo alcuni indizi sulle possibili implicazioni crossmediali celate dietro a una scelta apparentemente umoristica e naive. Leggo diversi consigli: “questa funzionalità opera al meglio con un green screen e una luce uniforme, per permettere a Zoom di individuare la differenza tra te e il background”; o ancora: “non ci sono restrizioni di mura quando aggiungi il tuo personale sfondo, ma raccomandiamo di ridimensionare l’immagine per adattarla al formato della tua videocamera” [6]. 
Come si deduce da questi suggerimenti, il piano di rappresentazione fittizia risponde alla concezione tipicamente pittorica di cornice e, ovviamente, al rapporto gestaltico tra figura e sfondo. Davanti a questi scenari è opportuno richiamare il concetto di display del paleolitico, un tempo in cui le immagini erano fisse ma “portatili” e, sovrapposte le une alle altre sulla parete, restituivano una proto idea di quello che oggi potremmo definire un palinsesto visivo dello schermo (Cometa 2006). In effetti, se analizziamo la questione sempre secondo i canoni pittorici, gli sfondi di Zoom sono caratterizzati da un certo appiattimento prospettico. Tuttavia si tratta di una rappresentazione fittizia. Nel ragionare su questi display ci addentriamo infatti in un territorio incerto, nel quale da una parte si ha la percezione di partecipare a un momento che avviene nel qui ed ora, reale e situato; dall’altra però, alla diretta (dall’inglese live, vivo), si sovrappone il canone della finzione bidimensionale dello spazio, che si riduce (forse si estende?) a immagine autonoma rispetto al contesto. Servendoci di un’immagine posticcia, finiamo quindi per abitare un luogo altro (la cosa non deve stupirci, nel nostro quotidiano ne facciamo esperienza di continuo, basta pensare alle stories di Instagram dove oggi giorno, attraverso una fotocamera, la finzione raggiunge la realtà e viceversa).
Così inteso, il piano della rappresentazione fittizia deve molto alla tecnologia televisiva. In essa infatti l’immagine tende ad appiattirsi e si presentano quindi minori opportunità per lo sviluppo di una prospettiva lineare profonda e convincente. La tendenza peraltro è stata enfatizzata dal green screen della tivù, di cui gli Zoom backgrounds sono una copia, complice l’era della postfotografia che ci troviamo ad abitare: le immagini ormai circolano in rete, veloci e smaterializzate: non esiste più un’idea di originalità e proprietà, di verità e memoria, ci troviamo anzi in un universo in cui tutto può potenzialmente essere falso (Fontcuberta 2018).

Too Hot to Handle (2020) - Season 1, episode 9 - Netflix.

Come già accennato, queste manifestazioni dalla duplice natura, immaginata o reale, ci permettono di ampliare la riflessione e avanzare alcune ipotesi sulle interconnessioni mediali tra la piattaforma e altri linguaggi, soprattutto quello pittorico, teatrale e televisivo. Il piano della rappresentazione fittizia e il suo funzionamento introducono così un secondo livello di analisi che permette di parlare del piano di presentazione apparente, associandolo alla dimensione simbolica e rappresentativa tipica della tv. Per molti aspetti, la televisione e Zoom sono medium simili. Sono strumenti di rappresentazione che intrattengono diversi rapporti con la realtà. Possono metterla in scena secondo procedimenti spettacolari o funzionali di varia natura (come per il caso del green screen citato poco fa), oppure possono rispecchiarla fedelmente. 
Nel caso della presentazione apparente, abitiamo in una dimensione diversa dalla precedente, in cui l’utente presenta al mondo esterno il proprio micro mondo domestico. Nel farlo, si finisce inevitabilmente per costruire una rappresentazione della nostra persona. Accade anche nei casi meno consapevoli, in cui si applica un semplice principio di sottrazione alla realtà stessa. Pensiamo all’inquadratura più o meno grandangolare con cui decidiamo di mostrare i nostri ambienti di casa e agli elementi che appaiono come immagini di fondo (fotografie e stampe appese ai muri, oggetti sulle mensole etc). Queste modalità di interfaccia con il mondo si potrebbero definire come un fenomeno di setting do it yourself, una scenografia personale, un estratto di “shelf-life” ben lontano dalle regole del poor theatre (il riferimento a “shelf” è calzante, basta pensare alla quantità di librerie scelte come immagine di fondo da buona parte delle professionisti della cultura durante le cosiddette “dirette”) [7].
In questo caso risulta semplice capire quanto sia soggettiva la natura dello schermo. Entriamo in contatto con l’altro in maniera apparentemente veritiera, testimoniamo noi stessi (e quindi il nostro habitat, la nostra vita) davanti a un gruppo di persone, ma la nostra attenzione è inevitabilmente più autoreferenziale rispetto a quello che accade con altri strumenti.

Eppure, quantomeno per adesso, l’autorialità sottesa alle setting-performance ambientate nel privato viene percepita in modo più genuino rispetto ad altre piattaforme che ospitano contenuti video. Pensiamo a YouTube, che, nonostante abbia contribuito alla diffusione di user generated contents, è considerato a tutti gli effetti uno spazio della spettatorialità (per rimanere in ambito artistico, pensiamo alla scenografia dell’ultima performance di Nico Vascellari, DOOU (2020), interpretata dalla critica come uno spazio appositamente studiato per richiamare alla memoria degli utenti gli ambienti white cube o di videoclip musicali). 
Nel caso del piano di presentazione fittizia notiamo invece una situazione differente, ed è come se fossimo nel celebre San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina: nonostante le nostre conversazioni avvengano online, prevale una convinzione percettiva di realismo e veridicità, quantomeno a un primo sguardo. D’altra parte sappiamo che si produce una costante interazione tra trasparenza e ipermediazione nella costruzione del sé digitale. Consapevoli di queste dinamiche, sarebbe un errore non considerare la possibilità che i nostri scenari soggettivi portino con sé una certa intenzione creativa e un qualche potenziale narrativo. D’altra parte, come sostiene Philippe Parreno e come la storia dell’arte e del display hanno rivelato in più occasioni, non esiste un oggetto (d’arte) senza la sua esposizione [8].
Le idee di narrazione, esposizione e relazionalità fin qui esposte, vengono messe in scena nel piano di presentazione apparente attraverso modalità tipiche del medium teatrale. Il teatro è stato definito da Foucault come il luogo dell’eterotopia cronica, un spazio vuoto dove la scena cambia in relazione al tempo, in un susseguirsi di una serie di luoghi estranei; ma la dimensione relazionale e sociale, a dire il vero, appartiene al teatro tanto quanto alla tv.
In questo senso, Zoom esiste solo come rapporto con l’altro, e, instaurando questa relazione, si apre a un pubblico che non si raduna fisicamente e visibilmente in un luogo deputato, ma è disperso nelle relative abitazioni. Questa diaspora spaziale non rende meno rilevante la significanza di Zoom: buona parte della potenzialità (e del potere) dell’app consiste nella sua capacità di mettere in connessione un’ampia comunità di persone, sincronizzando all’istante i ritmi di ciascuno. 

Party on Zoom - Santiago Felipe, Getty Images.
Party on Zoom - Santiago Felipe, Getty Images.

E proprio per la sua dispersione, il pubblico della televisione è una sorta di fantasma ripetutamente evocato, poiché a esso fa continuamente appello il mezzo stesso (Grasso, Scaglioni 2003). Se associamo il concetto a Zoom, comprendiamo quanto tutte le nostre apparizioni sono protagoniste all’unisono. 
Assistiamo al theatrum di noi stessi: guardiamo, siamo spettatori, ma al tempo stesso agiamo. Theatrum è il termine più indicato per esprimere questa nuova estetica, la sua etimologia infatti rimanda a più dimensioni mediali: è il luogo in cui avviene un determinato fatto, ovvero il luogo o l’ambiente messo in scena; è usato nell’accezione di “spettacolo”, di una singola rappresentazione o di un intero genere; e infine sta per “pubblico”, indicando gli spettatori che assistono allo spettacolo teatrale. Si tratta di una serie di differenti campi di forza (ne ho individuati tre, ma potrebbero essercene altri) che permettono di ripensare concretamente Zoom, il suo funzionamento e la sua lettura teorica in quanto medium [9]. Parlare di campi di forza, inoltre, permette di problematizzare le idee sviluppate in questa riflessione, sottolineando l’indissolubile relazione che intercorre tra loro. Sulla scia delle teorie sulla mediamorfosi, i social e le app hanno contribuito a ridefinire i nostri ruoli in maniera radicale. L’apparente intimità messa in scena nelle nostre case permette di far sentire coinvolto lo spettatore, che diventa a sua volta un produttore. Al suo interno, noi siamo nel mondo come qualcuno che ha il mondo, che dischiude il suo mondo (Galimberti 1987).
Nella performance che mettiamo in atto davanti a un gruppo di persone diventiamo spettatori e creatori: sceneggiatori, registi, direttori della fotografia, hair stylist e direttori creativi. Sappiamo di essere guardati e performiamo. Performiamo noi stessi in un’interconnessione di singolarità, come se fossimo “una piccola scatola in uno schermo” (ci torna in mente la scena di apertura di The Brady Bunch) [10]. Sulla piattaforma ciascuno ha quindi molto più controllo sulla sua porzione di mondo, l’agency dello spettatore (ovvero la sua capacità di scelta) matura più del solito quella che potremmo chiamare una licenza artistica. Licenza possibile proprio perché l’evento mediale si inserisce in una condizione abitativa che trasforma la casa in uno spazio pubblico atomizzato.

Per concludere, se in entrambi i casi l’immagine in movimento, mediata dallo schermo e dalla videocamera, non è veritiera, dall’altra essa restituisce un’esperienza iper sensoriale intrisa di realtà. Si tratta di un processo performativo in continua trasformazione e caratterizzato da una forte autorialità, in cui l’interazione figura-sfondo diventa un vero e proprio setting. 
Zoom diventa un luogo-non luogo in cui si attivano determinate relazioni con l’esterno, e dove i singoli partecipanti agiscono attraverso i registri del Serio e dell’Ironico [11], secondo un principio di profanazione o aderenza alla realtà. Il rapporto tra spettatore e attore-performer cambia e si trasforma: i due ruoli sono intercambiabili e biunivoci. Paragonando Zoom ancora una volta al teatro, si comprende quanto esso abbia operato sia in direzione anti illusionistica che di magia, in una condizione di indecidibilità tra il “per finta” e il “per davvero” [12].
Ci troviamo davanti a strutture narrative, metamorfiche o performative che rivendicano il primato dell’esperienza corporea, presentata e rappresentata in contemporanea. Il nostro corpo è l’assoluto qui di ogni là. Noi infatti non potremmo dire qui o là prescindendo il nostro corpo, il nostro spazio non è neutro. Spieghiamoci meglio: posto in una posizione precisa, il corpo agisce in uno spazio che si apre al di là di quella stessa posizione: è lo spazio del vissuto, che è altro dallo spazio geometrico della stanza. Nell’ubiquità digitale, un altro corpo, posto in un’altra posizione, ha un altro spazio vissuto, autonomo dal precedente. Le funzioni di Zoom enfatizzano queste dinamiche e sfruttano al meglio l’ubiquità della cornice digitale, mostrandoci quanto “il tempo corporeo sia un tempo diverso da quello oggettivo [13]. Al di là di kronos, un tempo quantitativo, oggettivo, meccanico e assoluto, subentra un tempo interiore che diventa kairos, una cristallizzazione tutta personale in cui siamo noi a determinare la nostra esistenza, che assume quindi una connotazione qualitativa.
La doppia temporalità tra intersoggettivazione e soggettivazione presente nelle nostre videocall genera quindi un lascito performativo che dà vita ad ephemera visivi: “Questo è il modo in cui mi sento  più a casa. Come se fossi una viaggiatrice nel tempo, anziché sentirmi catturata in un [solo] attimo” [14]. Commenta così l’attrice, modella e designer Chloë Sevigny, fotografata dal già citato magazine newyorkese The Cut, quando pensa alla sua prima esperienza di zoom-shooting e alle scelte creative celate dietro a un semplice – e in apparenza banale – scatto fotografico. Una temporalità espansa ma circoscritta. Un feticcio autonomo dalla fonte originale maieuticamente rimediato e condiviso nella rete.
Un futuro memoriale visivo a portata di screenshot. 

I.S.C.

The Cut - May Issue - cover by Elizaveta Porodina

[1] Ansa 2020, Per l’app Zoom boom di download, a +1300%, 27 marzo.

[2] Immagini scaricabili gratuitamente sul sito di Studio Ghibli e dal sito di Harper Bazaar.

[3] Sito ufficiale di Zoom – sezione “Touch My Appearance”.

[4] Come lasciato intendere nei paragrafi precedenti, questa tesi è empirica ed è comprovata dall’attività quotidiana in videoconferenza e dai feed dei siti web.

[5] Ronchi,G 2020 Il libro che raccoglie il meglio dell’architettura delle anime, in “Domus”, 20 aprile. Cfr.: Anime Architecture.

[6] “This feature works best with a green screen and uniform lighting, to allow Zoom to detect the difference between you and your background. You can also upload your own images or videos as a virtual background. There are no size restrictions when adding your own virtual backgrounds, but we recommend cropping the image to match the aspect ratio of your camera before uploading it”. TdA dal sito ufficiale di Zoom.

[7]  La locuzione shelf-life viene utilizzata da Mark Blythe e Paul Cairns nella pubblicazione Tenori-on Stage: YouTube as performance space reperibile sul sito (cfr. bibliografia).

[8] Parreno, P 2013, in The Exhibition as Act of Creation sul sito di Palais de Tokyo.

[9] Per il concetto di “campo di forza” associato alle teorie mediali si veda: Bechelloni, G 1974, Informazione e potere, Officina, Roma.

[10] Eichler-Levine, J, in Sklar, J 2020  ‘Zoom fatigue’ is taxing the brain. Here’s why that happens, in “National Geographic”, 24 aprile.

[11] Per un approfondimento dei registri del serio e dell’ironico si veda il testo di Gérard Genette Palinsesti. La letteratura di secondo grado (cfr. bibliografia).

[12] Valentini, V, Arte e teatro. Dispositivi mediatici, l’iperspazio mediatico della scena teatrale, in Scardi, G, di Pietrantonio, G, Guerisoli, F 2020 (a cura di), Perché non parli, Silvia Editoriale, Cologno Monzese, 2010.

[13]  Estratto da un incontro di Umberto Galimberti alla Fondazione Corriere della Sera, 5 febbraio 2008.

[14] “This is where I feel more at home,” she explained. “As a time-traveler, rather than caught in a specific moment”, TdA.

Bibliografia:

  • Sorlin, P 2002, Persona. Del ritratto in pittura, trad. S Guindani, Tre Lune Edizioni, Mantova.
  • Blythe, M, Cairns, P 2010, Tenori on-stage: YouTube as Performance space, atti del convegno “Proceedings of the 6th Nordic Conference on Human-Computer Interaction”, Reykjavik, Islanda, 16-20 ottobre.
  • Scardi, G, di Pietrantonio, G, Guerisoli, F 2020 (a cura di), Perché non parli, Silvia Editrice, Cologno Monzese.
  • Bolter, JD, Grusin, R 1997, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Marinelli A (a cura di), Guerini Studio, Milano 2002.
  • Casini, T e Lombardi, L 2019 (a cura di), The Gentle Art of Fake. Arti, teorie e dibattiti sul falso, Silvana Editoriale, Lavis (Trento).
  • Cometa, M 2018, Profondità della superficie. Una paleontologia dello schermo, in “Between”, vol. VIII, n. 16, novembre.
  • D’Aloia, A 2020 (a cura di), Viralità mediale. Immaginari e realtà al tempo del virus, seminario di Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, 15 aprile.
  • Fidler, R 1997, Mediamorfosi. Comprendere i nuovi media, Andò R, Marinelli A (a cura di), trad. R Andò, Guerini e Associati, Milano 2000.
  • Fontcuberta, J 2018, La furia delle immagini. Note sulla postfototografia, Einaudi, Torino.
  • Foucault, M 2004, Utopie Eterotopie, A. Moscati (a cura di), Cronopio, Napoli 2018.
  • Galimberti, U 1987, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2002.
  • Genette, G 1982, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, trad. R Novità, Einaudi, Torino 1997.
  • Grasso, A Scaglioni, M 2003, Che cos’è la televisione. Il piccolo schermo fra cultura e società: i generi, l’industria, il pubblico, Garzanti, Milano.
  • Katz, E Blumler, JG 1974 (a cura di), The uses of Mass Communications: Current perspectives on Gratification Research, Sage, Londra.
  • Patris, P 1992, Theatre at the crossboards of culture, Routledge, Londra.
  • Stoichita, V 1993, L’invenzione del quadro, trad. , Il Saggiatore, Milano 1998.