UNO SGUARDO OLTRE

L’immagine operativa alle soglie di una nuova epoca tecnologico-scientifica

di Marco Mancuso

James Bridle, Dronestagram, 2012-ongoing, photography and social media, online project http://booktwo.org/notebook/dronestagram-drones-eye-view/, courtesy l’artista e booktwo.org

Nell’ormai (relativamente) lontano 2014, il teorico dei media e saggista Lev Manovich, insieme al gruppo di ricerca del Cultural Analytics Lab da lui fondato e diretto presso il California Institute for Telecommunication and Information, rilascia il progetto The Exceptional and the Everyday: 144 hours in Kyiv (2014), una stupefacente analisi visiva dell’uso di Instagram durante una protesta civile. Dal 17 al 22 febbraio 2014, infatti, l’Ucraina affronta una delle più importanti e violente rivoluzioni della sua travagliata storia – sull’onda delle durissime manifestazioni di piazza dell’inverno precedente, conosciute con il termine Euromaidan culminata con la cacciata dell’allora presidente filorusso Viktor Janukovyč, la restaurazione della costituzione come era dopo la rivoluzione arancione del 2004, il rilascio della prigioniera politica Julija Tymošenko e l’abolizione della “legge sulle lingue regionali”, con conseguente nuova legge decretante l’ucraino unica lingua di Stato. 

The Exceptional and the Everyday: 144 hours in Kyiv utilizza complesse tecniche computazionali custom-made di visualizzazione di Big Data, per esplorare più di 13.000 immagini su Instagram, prodotte e condivise da oltre 6.000 persone nell’arco di una settimana di passione nell’area centrale di Kiev, prevalentemente attorno alla Majdan Nezaležnosti, centro nevralgico della protesta. Il risultato è un enorme pattern visivo, una sorta di collage digitale di forme indefinite, gradienti di colore, dettagli visivi infinitesimi. Cosa possono quindi raccontarci tutte queste immagini digitali, distribuite attraverso i social media, delle esperienze di migliaia e migliaia di persone che abitano in una specifica città nel corso di un evento politico di tale importanza? Quanto le caratteristiche intrinseche dello strumento Instagram, i tag più utilizzati per categorizzare le immagini, le differenti lingue utilizzate nei testi, le possibili ricorrenze visive come specchio dei momenti maggiormente iconici di una rivoluzione (macchine incendiate, scene di folla, cariche della polizia, barricate, graffiti e slogan, fiori e candele, etc..), quanto sostanzialmente le “similarità visive” e le “caratteristiche visuali” di ogni immagine possono essere utilizzate come strumento di analisi sociale? Quanto, infine, è sottile il confine tra l’output finale di The Exceptional and the Everyday: 144 hours in Kyiv come opera di New Media Art e la sua interpretazione come analisi di un fenomeno socio-politico attraverso gli occhi di un complesso macchinico digitale (device – rete – social network – software di visualizzazione)?  

 

Una questione di percezione (collettiva)

I software studies di Lev Manovich combinano metodologie e tecniche dal data science al data visualization, dal media design alle digital humanities, per evidenziare come le immagini digitali prodotte da “sistemi software” (reti, network ma anche app e algoritmi di machine learning) possono essere utilizzate sia per osservare e interpretare aspetti specifici della cultura contemporanea sia per studiare come questi stessi algoritmi intervengono attivamente nella produzione di un complesso immaginario visivo che agisce sulla percezione della realtà da parte di miliardi di persone in tutto il mondo. Più volte, nei lunghi mesi di lockdown e isolamento forzato durante la pandemia di COVID-19, mi è capitato di pensare ai progetti del Cultural Analytics Lab; a come, in altre parole, le loro macchine virtuali avrebbero “osservato” una società in completa balia della più grande epidemia globale degli ultimi cento anni. E come, in termini più ampi, l’enorme quantità di tempo spesa online da un numero altrettanto enorme di persone da ogni angolo del pianeta stesse producendo una quantità di immagini digitali tale da esercitare un impatto sensibile (di cui ancora non si vedono, per ovvi motivi, gli effetti a lungo termine) sulla percezione collettiva del momento storico di emergenza. Certo, non che questo sia un fenomeno che si possa definire nuovo: l’equazione “tempo speso online uguale produzione e condivisione di immagini e video”, nonché la dicotomia tra la mitologia dello User Generated Content e la distopia dei social network, sono argomenti che si possono ormai considerare digeriti (e in parte rigettati). È però indubbio che l’emergenza sanitaria globale e il conseguente confinamento dei corpi fisici abbia innescato un meccanismo di migrazione collettiva e simultanea senza precedenti su infrastrutture tecnologiche che basano il loro funzionamento sull’immagine. Ed è quindi evidente, senza scomodare Manovich e i suoi programmatori, come l’immagine digitale sia diventata, ancor di più e per un arco temporale sostanzialmente continuo in questo 2020, la principale finestra per ciascuno di noi per gettare “uno sguardo oltre” e avere una percezione quantomeno parziale di cosa avviene “al di là” della nostra identità corporea.

 

Una realtà filtrata quindi, mediata o meglio ri-mediata, dall’occhio della macchina software da un lato e da quello delle nostre identità digitali dall’altro, mai come in questo periodo libere e autorizzate a scorrazzare in giro per la rete, a produrre feticci visivi digitali capaci di cortocircuitare la nostra percezione del mondo e dei fenomeni politici e sociali che lo caratterizzano. A tal proposito, l’antropologa Meg McLagan e lo storico dell’arte Yates McKee affermano che “l’emergere di nuove forme di movimenti sociali e politici non governativi nel corso degli ultimi anni, si basano su pratiche di mediazione in base alle quali i movimenti sociali stessi costituiscono pubblici particolari, avanzano rivendicazioni e cercano di intervenire politicamente. Le immagini digitali circolano in specifiche reti discorsive, ancorate alla specificità della loro forma di mediazione e attente alle esigenze estetiche e generiche delle loro particolari piattaforme” (McLagan, McKee 2012). Dai reportage più o meno amatoriali di centri urbani desolati e pattugliati ai racconti per immagini di esperienze quotidiane da ogni angolo del pianeta, dalle vette fantasmatiche dei meme attorno alle sempre più imbarazzanti conferenze dei leader politici mondiali alle visualizzazioni di dati più o meno accurati attorno al numero dei contagi, dalle immagini restituite da deprimenti tentativi di concerti su Facebook alla quantità di screenshot di ambienti domestici, intimi e privati provenienti da teleconferenze, lezioni online e video chat private, dalle animazioni digitali particellari dei flussi di nuvole droplet conseguenti a uno starnuto alle bellissime visualizzazioni scientifiche di come un virus “intelligente” sia in grado di nascondersi e parassitarsi all’interno di un organismo ospite, bisogna ammettere che il rapporto tra immagine digitale e realtà fenomenologica non è mai stato così stretto e vitale. Così capace, in altre parole, di attivare concetti e ripensare le meta-narrazioni del nostro tempo.

Vero, l’immagine ha sempre avuto una caratteristica agentiva, fin dalle sue origini; la capacità cioè di esercitare, su diversi piani, un effetto sul mondo e avere impatto sulla vita culturale e politica di una collettività. E ancor di più da quando l’immagine è divenuta “operativa”, secondo la definizione di Harun Farocki, per il quale essa “non rappresenta un oggetto, ma piuttosto fa parte di un processo”(Farocki 2014). Essa afferisce ai mondi dell’industria, agli ambiti della scienza, della pubblicità, dei videogiochi, della pornografia, della cronaca – nonché ovviamente all’ambito militare e aglii scivolosi territori della pubblica sicurezza – e consente la manipolazione dell’ambiente sociale in cui essa si diffonde per la sua capacità di condividere senso con gruppi ampi di persone, soggetti e identità collettive. Come teorizzato ed evidenziato nei tre capitoli del progetto installativo Eye/Machine (2001–2003), incentrato, sulla rappresentazione visiva della Guerra del Golfo (1991), in cui viene messo in scena il senso collettivo delle immagini (sostanzialmente indistinguibili) prodotte dalle “armi intelligenti” in azione sul territorio iracheno e dalle simulazioni al computer nonché dalle telecamere dei media presenti sul campo, la loro penetrazione nell’immaginario collettivo globale comportava la violenta e sconcertante presa di coscienza collettiva che l’occhio umano non potesse più essere considerato come unico portatore di valore testimoniale di un determinato evento sociale e politico. Inoltre, per Farocki il termine “immagine operativa” prendeva originariamente in considerazione le immagini generate dalle macchine per le macchine, non prodotte quindi per l’occhio umano. Esso è ormai inesorabilmente passato a indicare il più vasto ambito delle immagini che nascono dal nostro rapporto diretto con le tecnologie e le reti, di tutte quelle prodotte nei laboratori scientifici e dai mondi in realtà aumentata e realtà virtuale, nonché generate da sistemi automatizzati, di controllo biometrico e di intelligenza artificiale. 

Questa non è l’unica sfida che il veloce progresso tecnologico-scientifico attuale pone alle teorie del cineasta tedesco; secondo Farocki infatti, tutte le immagini che lui definisce “operative” nascono non per fare arte, ma per produrre la realtà a fini pratici (Farocki 2014). Ma siamo sicuri sia ancora veramente così? È tuttora valida questa dicotomia, o forse una serie di artisti hanno lavorato negli ultimi anni secondo linee di azione che assorbono ogni separazione tra i due momenti dell’immagine, quello agentivo e quello creativo? Possiamo pensare alla New Media Art come quella pratica artistica finalmente in grado di raccontare la realtà in cui viviamo attraverso la produzione di immagini rappresentative del rapporto stratificato tra uomo e macchina “intelligente”? Secondo la teorica norvegese Aud Sissel Hoel “più le telecamere diventano ubique, le immagini disperse in rete, i dati visivi geo-taggati e i database navigabili in tempo reale, più lo stato delle immagini tenderà a cambiare in modo veloce”(Hoel 2018) e suggerisce come “ci sia ancora del lavoro da fare per quanto riguarda il significato del termine ‘immagine operativa’, soprattutto nella prospettiva dell’arte, della produzione attraverso i new media, dal punto di vista della media archeology e dei visual studies”(Hoel 2018). 

 

Di come le macchine vedono il mondo

Nell’opera della videomaker americana di origini filippine Trisha Baga appare evidente come l’immagine digitale di rete (o in rete), “operativa” per sua stessa definizione come immagine creata per (iper)informare e descrivere finestre di mondo sempre più ampie e imprevedibili, possa essere utilizzata come effettiva forma d’arte. Con un sapiente uso della tecnologia 3D e del montaggio video, ciò che Baga indaga attraverso le sue installazioni è l’immenso immaginario visivo contemporaneo, creato e ricreato incessantemente dall’utilizzo sempre più integrato delle tecnologie. Nonché la decostruzione, spesso ironica, di questo immaginario come parte della cultura di massa, consente di indagare alcuni grandi temi della nostra società, dai cambiamenti climatici al rapporto tra corpi fisici e corpi virtuali, dall’identità di genere (tema a lei molto caro) al rapporto tra mondo reale e digitale. Baga giunge , in alcuni capitoli più recenti – come in Mollusca & The Pelvic Floor (2018) e in 1620 (2020) a osservare persino l’impatto delle intelligenze artificiali e della ricerca biotecnologica sulla creazione del panorama visivo che caratterizza il mondo in cui viviamo e a formulare le possibili nuove interpretazioni del reale che esso inevitabilmente innesca. Mondi visivi e sonori, rimandi continui alla storia del cinema e della letteratura miscelati a singoli elementi associativi tipici della cultura di Internet e delle sue frammentarie modalità di navigazione, per proporre un’ interpretazione della storia collettiva data poi in pasto allo spettatore per una sua ulteriore re-interpretazione. La fusione tra la realtà e la sua simulazione digitale, il rapporto tra corpi biologici e avatar virtuali, l’utilizzo di tecniche video, animazione e modellazione di mondi virtuali come forme di narrazione e racconto di una società ipertecnologica in rapida trasformazione, sono alcuni dei temi portanti anche della ricerca dell’artista americano Jon Rafman. Pur se impossibile in questa sede analizzarne l’opera completa,il suo lavoro evidenzia da un lato un aspetto quasi “documentativo” delle tecnologie, attraverso un racconto del contemporaneo fatto di identità virtuali appositamente modellate ( Kool-Aid Man, ambientato in Second Life[2008-11]), di intelligenze artificiali che prendono coscienza dei loro incubi (Poor Magic [2017] e Disasters Under The Sun [2019]), e di ambienti videoludici che consentono una re-interpretazione della memoria collettiva (A Man Digging [2013]).  Dall’altro lato mostra un aspetto maggiormente “operativo” nel modo in cui immagini e video (amatoriali e non) archiviati in rete possono essere rimediati, rimixati e rimasticati. Suggerisce allo spettatore una possibile e allucinata interpretazione di un mondo contemporaneo che mai come in lavori come Still Life (Betamale) (2013), Mainsqueeze (2014) e l’incredibile Nine Eyes (2008, in corso) appare, nemmeno troppo serenamente, destinato a un collasso sociale e morale senza precedenti. 

Anche l’immagine operativa macchinica, quella creata cioè dalle macchine per le macchine, siano esse strumenti di sorveglianza, dispositivi teleguidati per operazioni di ricognizione territoriale o sistemi di osservazione e indagine della realtà per mezzo di intelligenze artificiali e reti neurali, è stata ampiamente utilizzata come forma d’arte da alcuni artisti “iconici” dell’ultimo decennio. Il teorico, giornalista e artista britannico James Bridle nel progetto Dronestagram (2012) ha raccolto, in più di tre anni di ricerca, le immagini di oltre cento paesaggi dall’alto di luoghi nel mondo colpiti dall’attacco di droni da guerra, poi caricate su specifici account social di Instagram e Twitter, nonché su un Tumblr dedicato.. O ancora, nell’opera The Right to Flight (2014) Bridle ha progettato e costruito un grande pallone aerostatico su cui ha montato una serie di telecamere aeree e router collegati al darknet, lasciato libero sopra i cieli di Londra allo scopo di raccogliere e archiviare in modo sicuro immagini e filmati della città dall’alto, per “restituire il potere della sorveglianza e dell’onniscienza ai sorvegliati”. Senza in questo dimenticare la sua ricerca sui processi di interpretazione della realtà da parte dei sistemi di machine learning, alla base delle più recenti evoluzioni dell’intelligenza artificiale, come nel progetto Activations (2017). Nell’opera, una serie di stampe evidenziano come una rete neurale, testata e progettata per un sistema di guida autonoma, sia in grado di “guardare” la strada che si snoda di fronte all’automobile in un modo inizialmente identico a quello dell’occhio umano, ma sia altresì in grado di “modellare” gradualmente questa visuale secondo un sistema di “osservazione” che diventa mano a mano più insignificante e incomprensibile al nostro sguardo, perché frutto dell’interpretazione dei dati visivi da parte della macchina “intelligente”. Anche la tedesca Hito Steyerl ha recentemente studiato le potenzialità artistiche e di indagine sociale sia dei sistemi di intelligenza artificiale sia degli applicativi in realtà aumentata. Artista, saggista e film-maker la cui carriera esplora da anni la complessità del mondo digitale e delle implicazioni dei sistemi macchinici nella società capitalista, Steyerl si è dimostrata nel tempo attenta osservatrice in alcuni suoi testi (su tutti In Defense of the Poor Image [2009]) dei processi di circolazione e mutabilità delle immagini digitali. Di come cioè esse vengano prodotte, trasferite da un device all’altro, diffuse e consumate a cavallo tra la rete e altri dispositivi di network. Interessata alla presenza ubiqua dei meccanismi di sorveglianza e a come alcune semplici strategie performative di détournement dei nostri corpi siano in grado di eluderli contribuendo alla costruzione di un nuovo lessico per un utilizzo narrativo delle immagini digitali, Steyerl nel 2019 ha realizzato una grande retrospettiva per la Serpentine Gallery in cui ha esposto due lavori nuovi, commissionati per l’occasione. La videoinstallazione Power Plants (2019), costituita da un network di reti neurali che predice il futuro sviluppo dell’ecosistema di piante attorno alla galleria, partendo dall’osservazione dell’ecosistema reale e predicendo la sua crescita con uno scarto di 0.04 secondi rispetto al momento presente, e il sistema di realtà aumentata Actual RealityOS (2019), uno strumento digitale collettivo che osserva il quartiere all’esterno della galleria, ne traccia una serie di dati sociali legati a processi di ineguaglianza economica, social housing, distribuzione della ricchezza e diritti dei lavoratori e consente una visione architettonica “aumentata” della struttura della Serpentine sulla base dei dati (altrimenti invisibili) raccolti.

L’intelligenza artificiale è sicuramente la next big thing in termini di sistemi di visione della realtà, integrazione di nuove modalità di relazione uomo-macchina nella prassi della vita quotidiana, gestione di enormi flussi di dati e loro interpretazione nei grandi processi sociali e politici del nostro tempo. In termini sia utopici sia distopici. All’interno di un quadro siffatto, i sistemi di IA rappresentano un nuovo paradigma non solo nella concezione e definizione di “immagine operativa” di Farocki, ma anche nelle sue potenzialità interpretative di un mondo in cui ricerca tecnologica e scientifica modellano le caratteristiche della società in cui viviamo. Come pure nella capacità di creazione di un immaginario collettivo condiviso, fatto di immagini digitali prodotte da sistemi autonomi, capaci di processi decisionali indipendenti, in grado di “osservare” il mondo secondo un sistema di codici e regole condiviso tra macchine e di cui l’uomo è solo spettatore passivo. Nel cortometraggio Robot Readable World (2012) del regista e fotografo norvegese Timo Arnall, una IA debitamente addestrata su sistemi di guida autonoma, tracking di esseri umani e sistemi di riconoscimento facciale osserva il mondo attorno a sé, interpretandolo e ricostruendolo in termini visivi, secondo un vocabolario fatto di sovrapposizioni e stratificazioni sempre più evidenti tra elementi di footage della realtà e componenti di analisi digitale di quelli che vengono chiamati “punti di interesse” della realtà stessa. Su un altro livello agisce invece la serie Adversarially Evolved Hallucinantion (2017) dell’artista e attivista americano Trevor Paglen. Il lavoro è sviluppato attorno alle capacità non solo “interpretative”, ma letteralmente “generative” di immagini da parte di un sistema di machine learning, in grado di operare all’interno di un GAN (Generative Adversarial Network), un sistema cioè composto da due (o più) macchine “intelligenti” che innescano un processo “contraddittorio”. In esso, una delle due macchine “valuta” e “migliora” il lavoro compiuto, ciclo dopo ciclo, da una seconda macchina a cui è stato dato uno specifico compito: tentare di riprodurre in maniera quanto più fedele possibile una determinata immagine (oggetto, volto, paesaggio, etc), attingendo a una serie di enormi database e archivi di immagini simili, caricate e condivise in rete da persone comuni, sistemi di analisi di dati sensibili, strumenti di sorveglianza e tracciamento. Le immagini che ne derivano, allucinate come il titolo dell’opera tende a sottolineare, rappresentano un passaggio ulteriore di quanto descritto in questo saggio, nei termini di una macchina che dipinge una realtà autonoma creando immaginari che potranno, in un futuro non troppo lontano, avere un impatto collettivo sull’interpretazione della realtà stessa da parte degli esseri umani. Perché, come sottolinea lo stesso Paglen: “uno degli aspetti più importanti di questo lavoro è mostrare a che punto, metafore e soggettività di forme di senso comune altamente specifiche, sono presenti all’interno di questi sistemi di intelligenza artificiale”(Boucher 2018).

Ma è forse attorno alle pratiche di riconoscimento facciale, di facial signature, ai sistemi di analisi biometrica e alle pratiche di Fenotipizzazione Forense del DNA (photofitting molecolare) che si gioca la grande battaglia etica, legale e politica riguardo alle prossime frontiere della visione macchinica e al suo impatto in termini collettivi. Già quasi dieci anni fa, l’artista americano e attivista per i diritti della comunità queer Zach Bias aveva analizzato i pericoli legati ai sistemi biometrici di riconoscimento facciale – con la serie di opere Facial Weaponization Suite (2011-2014) – e ai loro processi di osservazione del mondo per mezzo di molteplici sistemi di sorveglianza, nella creazione di un immaginario macchinico votato a una pericolosa omologazione sessuale, razziale e sociale degli esseri umani. In questo lavoro, attraverso una sorta di video tutorial, Bias illustra da un lato il funzionamento dei sistemi “intelligenti” e la loro presenza invasiva nella nostra società, dall’altro suggerisce una serie di procedure per stampare delle maschere, con cui coprirsi il volto, a partire da dati biometrici collettivi catturati dall’artista in forma anonima all’interno di specifiche community. E ancora, nell’opera Fanon (Even the Dead Are Not Safe) Eigenface (2017) di Trevor Paglen, il volto dello psichiatra, antropologo e filosofo francese Frantz Fanon – uno dei rappresentanti storici dei movimenti de-colonialisti, anticapitalisti e antirazziali del Novecento – viene ricostruito attraverso processi di facial signature a partire dall’analisi di centinaia di migliaia di volti umani matchati tra loro, per creare una sorta di modello standard (average human face) comparativo per il genere umano. Anche se è nella ricerca artistica della biohacker americana Heather Dewey-Hagborg che molti di questi elementi di riflessione vengono a coincidere, alla luce anche del periodo storico che stiamo vivendo e dei fenomeni sociali che stiamo osservando, nel nome della salute pubblica e dei conseguenti sistemi di tracciamento e identificazione (online e offline) delle persone in funzione dello stato di salute (e domani delle caratteristiche genetiche) dei loro corpi. Nell’opera Stranger Visions (2012-2013) l’artista ha estrapolato una serie di sequenze (profili) di DNA da reperti forensi trovati per strada, come mozziconi di sigarette e gomme da masticare e in seguito ha generato e stampato modelli 3D delle possibili fattezze di individui sconosciuti sulla base solo della ricerca genomica. Nei due progetti Radical Love (2017) e Probably Chelsea (2017), Dewey-Hagborg ha collaborato con l’attivista americana Chelsea Manning, ex-analista dell’esercito americano, accusata (e ancora oggi incarcerata) per aver consegnato a WikiLeaks una serie di documenti riservati relativi alle operazioni militari in Iraq. Nel primo caso ha inserito i dati genomici di Manning (raccolti in uno dei tanti colloqui in carcere) e ha creato due diverse versioni del suo volto (una androgina e una femminile, per riflettere sulla pratica del riduzionismo genetico che riconduce il genere di una persona alla semplice lettura genetica del sesso). Nel secondo caso ha stampato in 3D addirittura trenta possibili variazioni di esso, sfidando il pubblico a riconoscere il viso originale dell’attivista. Perché, come afferma l’artista stessa: “il DNA può raccontarci molte storie e, come per tutti i dati, può prestarsi a molteplici interpretazioni. Probably Chelsea ritrae queste narrazioni alternate e rappresenta un esempio delle tante storie che il DNA può raccontare” (Dewey-Hagborg). Un complesso panottico fatto di immagini reali, digitali, virtuali e scientifiche  che comporteranno presto un’inimmaginabile rivisitazione della realtà, dei suoi elementi descrittivi e della sua interpretazione collettiva, secondo processi e modalità che sono oggi francamente poco pronosticabili. Non ci resta che stare a guardare che cosa succederà…

Rispetto alla produzione artistica, spesso e sempre più traslata nel campo del digitale, è interessante valutare ciò che Nicolas Bourriaud definisce nel 2005 Altermodern, un concetto basato sul superamento del postmoderno in cui “gli artisti sono alla ricerca di una nuova modernità basata sulla traduzione: ciò che conta oggi è tradurre i valori culturali dei gruppi culturali e collegarli alla rete mondiale” (Bourriaud 2005).
Immettendosi nella rete, concetto ad oggi messo fortemente in discussione, la produzione fisica o virtuale di qualsiasi tipo di contenuto che sia artistico, architettonico o extra-culturale, amplifica una serie di questioni introdotte negli anni dai concetti di di cross-medialità, interattività, digitalizzazione, realtà virtuale e immersività.
Nell’opera Bonus Level (2013 – in corso), l’artista Lawrence Lek sfrutta le dinamiche dei videogiochi per dimostrare come le immagini digitali dell’architettura diano forma a un complesso patrimonio culturale. Il progetto è composto da rendering di diversi luoghi londinesi ridisegnati in una città virtuale. Lek rielabora geografie di luoghi esistenti, dando vita a finzioni che attingono dal linguaggio architettonico e cinematografico. Lo spettatore, nelle vesti di flaneur, osserva i video e le installazioni da una prospettiva in prima persona; ripercorre ambienti noti e soddisfa il proprio desiderio di esplorare una nuova utopica città.
Si fa sempre più costante il parallelismo tra un’architettura che testimonia il passato e il presente ed una che invece guida verso il futuro, con nuovi movimenti e riassegnazioni di coordinate spaziali e temporali. Strettamente collegato alla fruizione di opere come quelle di Lawrence Lek è il progetto – anche se pensato vent’anni fa – realizzato dai già citati Hani Rashid e Lise Anne Couture: il Guggenheim Virtual Museum (GVM). Il GVM rimane il prototipo di un museo virtuale, avviato e voluto da John Hanhardt, curatore senior di Film and Media Arts, e dal curatore Matthew Drutt, con il sostegno della Fondazione Bohen. L’architetto parte dal presupposto che il mutamento percettivo della realtà si traduca anche nel modo in cui la New Media Art ridefinisce la sua stessa fruizione. I confini fisici del museo non sono più sufficienti a contenere un’arte che si espande nell’iper reale, ma lasciano la libertà al fruitore di ricreare nuove tridimensionalità, inserite in nuove realtà virtuali. Il progetto di Asymptote Architecture rimane un prototipo per un museo virtuale, che ricorda vagamente la spirale di Frank Lloyd Wright, ma estende ed espande i suoi confini con la prospettiva di ospitare opere d’arte digitale, non inscrivibili all’interno di mura di cemento. Il GVM rimane un museo in potenza, uno spazio utopico da aggiungere alle già esistenti sedi di New York, Venezia, Bilbao e Berlino. Se nell’opera di Lek, Bonus Level, lo spettatore-flaneur passeggia attraverso architetture riconoscibili, nel progetto per il GVM il pubblico si trova in una “non-architettura” formata da un ambiente 3D dinamico: i portali web mostrano parte della collezione del museo dedicata a opere d’arte digitali interattive e nuovi media.
La condizione socio sanitaria e il conseguente cambiamento culturale che stiamo vivendo riaffermano l’importanza di pensare alla fruizione dell’arte digitale e alla trasformazione dello spazio digitale stesso. Nella consapevolezza che il progetto del GVM si colloca in un periodo piuttosto lontano, la situazione attuale ci spinge a rivedere il disegno ideato da Asymptote Architecture, implementando il museo, considerando gli sviluppi tecnologici che hanno perfezionato sia strumenti che opere d’arte digitale. La prospettiva si inscrive in un inesorabile sgretolamento dei confini tra fisico e virtuale, che si traduce sia nell’esperienza fisica di fruizione dell’opera e di occupazione di uno spazio, sia nell’esigenza tutta digitale di dar il meritato “valore” all’opera stessa.

Note

1. Lev Manovich è Presidential Professor presso il The Graduate Center, City University of New York (CUNY). E’ autore di Cultural Analytics (MIT Press, 2020), AI Aesthetics (Strelka Press, 2019), Software Takes Command (Bloomsbury Academic, 2013) e The Language of New Media (MIT Press, 2001), gli ultimi due tradotti in Italia da Edizioni Olivares.

2. Il Cultural Analytics Lab utilizza i metodi del data science per analizzare la cultura globale contemporanea, interrogando in modo critico questi metodi dalla prospettiva delle scienze umane e della teoria dei media.

3. Se ne consiglia la visione a risoluzioni diverse sulla pagina Flickr del progetto https://www.flickr.com/photos/culturevis/15325213308/sizes/l 

4. L’analisi completa dei dati raccolti dal progetto The Exceptional and the Everyday: 144 hours in Kyiv è visibile sulla piattaforma http://www.the-everyday.net/

5. Con il progetto How Not to Be Seen: A Fucking Didactic Educational .MOV File (2013) soprattutto

Bibliografia e sitografia

  • Boucher, B 2018, “This Is the Project of a More Just World”: Trevor Paglen on Making Art That Shows Alternative Realities, in Artnet, [https://news.artnet.com/art-world/trevor-paglen-interview-1299836].
  • Farocki, H 2014, Phantom Images, Public, Toronto.
  • Hoel, A S 2018, “Operative Images Inroads to a New Paradigm of Media Theory”, in Image – Action – Space, pp. 11-28.
  •  McLagan, M, McKee, Y 2012, Sensible Politics: The Visual Culture of Nongovernmental Activism, Zone Books, New York.