algoritmi critici

Filtrata attraverso gli schermi e moltiplicata infinite volte, l’immagine ha oggi uno statuto problematico, se non fortemente deteriorato. L’enorme quantità di immagini in circolazione, in particolare digitali, ha ridotto il valore del singolo elemento a favore di un continuo potenziamento della massa. L’immagine acquisisce infatti forza e potenza praticamente illimitate quando fa parte di un montaggio di molteplici rappresentazioni. Per riguadagnare un’identità autonoma, smarcandosi dalla corrente di cui fanno parte, le immagini cercano engagement. L’esempio più comune di questa pratica è generare scandalo attraverso le fotografie: la reazione emotiva di chi guarda dà risalto mediatico all’informazione permettendogli di esistere in autonomia. Tramite questo processo di affermazione, l’immagine coinvolge l’uomo come mezzo per diffondersi in modo virale. Tale metodologia agentiva mette in chiaro una delle possibili accezioni attribuibili all’operatività dell’immagine e costituisce un’evoluzione della definizione elaborata da Farocki nel 2004. Nella visione di Farocki l’immagine operativa è prodotto delle macchine per le macchine, un dialogo tra due meccanismi senza intrusione umana, come avviene nel caso  delle comunicazioni tra aerei militari (cfr.Farocki 2004). L’immagine virale è operativa poiché è in grado di sfruttare l’uomo, ingranaggio inconsapevole e coinvolto emotivamente, a vantaggio della sua diffusione. 
L’immagine digitale nasce in relazione a meccaniche computazionali, che rendono la macchina capace di vedere (Arcagni 2018). Se l’idea di un’intelligenza artificiale capace di vedere è parte di un discorso sviluppato a partire dagli anni ‘60, oggi non è più una telecamera a fungere da occhio. Gli algoritmi di cui è costituita l’AI diventano occhi sempre più complessi (com’è il caso di machine e deep learning) attraverso cui le immagini sono smembrate e categorizzate.

“Le procedure algoritmiche sono arrivate a essere l’ambito di definizione dei visual media attuali, in particolare a causa della grande quantità di processi di traduzione del visuale delegati comunemente ai computer. Le macchine si trovano spesso a giocare un ruolo nella creazione di contenuto, nel determinare cosa è visibile a chi sul web e a governare attraverso sorveglianza di massa.” (TdA, Lee 2019)

Frame da eye/machine, Harun Farocki, 2003, ©2020 Harun Farocki Insitut. Courtesy MoMA, Museum of Modern Art, New York.

Come spiega Lee, l’Immagine va oggi guardata non come semplice rappresentazione, ma come complesso processo di codifica da parte di sistemi algoritmici, che traducono ciascun elemento in dati classificati senza intervento umano. Se alla base della scrittura di un algoritmo c’è l’intervento di matematici e informatici, non si può dire lo stesso dei passaggi successivi, dove prima il riconoscimento e poi la riproposizione delle immagini sono totalmente affidati agli “occhi” dell’Artificial Intelligence (AI). Ciò che viene proposto nella sezione “cerca” di Instagram è un esempio di un’azione meramente algoritmica: rispetto a interessi e ricerche ricavati precedentemente, la macchina estrae contenuti dal suo archivio dati che ricompone in immagini ritenute adatte per la persona a cui vengono proposte. L’unica interazione tra uomo e macchina risiede quindi nella condivisione acritica di elementi che, resi virali, fuoriescono dall’overflow caratteristico del nostro tempo.
Senza voler attuare una crociata anti tecnologica è necessario porre l’accento sulla non relazione tra macchina e individuo, sull’automazione della visione umana (Lee 2019). Tale rapporto può essere schematizzato in tre fasi: in primis un image processing in cui l’algoritmo, scritto dall’uomo, visiona le immagini che gli vengono sottoposte per poi procedere con una catalogazione basata su linee guida indipendenti da interventi umani. A seguito di questa classificazione gli elementi vengono riproposti al pubblico attraverso una framed selection, secondo la profilazione che ciascun individuo subisce navigando in internet. L’immagine guadagna infine una nuova fama tramite cui, smarcata dal flusso, riguadagna un’autonomia mediante la condivisione da parte del fruitore.
La tipologia di rappresentazione prodotta attraverso questi passaggi è definibile come immagine algoritmica, evoluzione contemporanea dell’immagine operativa,  di cui mantiene la processualità smarcandosi però dall’idea di un dialogo tra macchine, inserendo invece al suo interno l’essere umano. La presenza della persona all’interno del meccanismo dell’immagine algoritmica è un primo passo verso la possibilità di creare cultura attraverso le immagini digitali. Le rappresentazioni algoritmiche possono diventare parte di un processo al cui interno l’uomo sia parte attiva nella creazione di arte e conoscenza.
Diverse pratiche artistiche si sono poste il problema di hackerare i sistemi computazionali superando l’idea di immagine automatizzata. L’arte si pone la sfida di porre in rapporto l’algoritmo e lo sguardo umano, rifiutando l’idea di una visione unica senza possibilità di appello. 

“(Parlando di Anywhen, esposizione alla Tate Modern 2016) L’edificio diventa una sorta di automata, l’automata è sensibile a certi input. Se fuori sta piovendo può essere che un sacco di ossigeno nutra i lieviti, loro agiranno di conseguenza e cambieranno le cose all’interno. La mostra interrogherà l’idea della macchina e della vita. […] è una strana macchina metà organica, metà meccanica e metà digitale. È una bestia.” (Parreno 2016)

Installation view di Oceans in Transformation, Territorial Agency, 2020, ©2020 Enrico Fioresi. Courtesy Interni Magazine, Thyssen Bohemiza Academy 21 e Territorial Agency.

Inserire l’hacking a livello dell’algoritmo comporta un elemento di imprevedibilità all’interno dello stesso processo; tuttavia è proprio in questa perdita che si può trovare la ricchezza critica capace di interrogare chi guarda. L’uomo viene coinvolto non solo nel rendere virali immagini digitali, ma anche nel comprenderle e fare parte della loro creazione.
L’attenzione all’immagine operativa e all’overflow è punto centrale nella  pratica di Territorial Agency (TA), studio fondato da John Palmesino e Ann-Sofi Rönnskog a Londra. I due, architetti, definiscono la propria pratica come

“Attività basate su analisi territoriali estensive. Il focus è su rappresentazioni complesse delle trasformazioni delle strutture fisiche dei territori abitati contemporanei. Territorial Agency lavora su progetti per rafforzare la performance regionale e l’organizzazione di seminari, workshop, esposizioni ed eventi pubblici come processo per costruire capacità di innovazione.” (Territorial Agency 2020)

L’ambito di indagine di TA è il territorio, raccontato sovrapponendo diversi database per ottenere immagini complesse. In TA architettura e arte si fondono con l’intenzione di riuscire a divulgare in maniera approfondita  le complessità legate ai paesaggi antropizzati, rendendole visibili in immagini facilmente comprensibili.
In ciascuna delle rappresentazioni di TA vengono convogliati dati open source e materiali d’archivio sovrapposti come layer informativi su immagini di paesaggio. I diversi studi presentati negli anni – come Museum of Oil (2015) o Oceans in Transformation (2019) – non intendono dare semplicemente una visione asettica dei luoghi che analizzano. Le informazioni raccolte vengono prima guardate nel loro insieme e poi selezionate per sviluppare un cluster informativo e visivo che costituisce il prodotto finale. L’immagine risultante non contiene quindi tutte le informazioni disponibili su quella parte di mondo, ma evidenzia alcune problematiche seguendo la lettura critica attuata da TA. Un esempio è la scelta di raccontare, all’interno della mostra Oceans in Transformation, le rotte delle navi commerciali e gli atti di pirateria nelle diverse zone oceaniche. Tali analisi rendono quindi chiara la problematica dell’abuso delle superfici marine, senza bisogno di specificare tutti i dati esistenti su quel luogo.
Il lavoro ha infatti uno scopo ben preciso: dare corpo al modo in cui immaginiamo il mondo, tentando allo stesso tempo  di rimodellarlo concretamente (Palmesino 2018). Chi guarda le immagini create dallo studio è profondamente coinvolto nel processo, divenendo così conscio delle questioni rese evidenti dagli architetti. Oltre alla volontà di sensibilizzare il pubblico a una serie di tematiche, si somma l’utilizzo dichiarato di una specifica metodologia di raccolta dati. La scelta di produrre immagini comunicate esplicitamente come operazioni artistiche attribuisce loro un’importanza centrale anche dal punto di vista della divulgazione scientifica. Ne risultano immagini ricche di senso, che non sono un insieme ordinato di dati e che comunicano con facilità con diversi tipi di pubblico.

Immagine da Oceans in Transformation, Territorial Agency, 2020, ©2020 Territorial Agency. Courtesy Ocean Space e Territorial Agency.

I lavori di Territorial Agency, nella loro complessità, permettono di compiere un passo ulteriore nella riflessione sull’immagine operativa: la processualità tipica della visione di Farocki si lega qui all’apporto critico dato dall’essere umano, realizzando un nuovo tipo di rappresentazione. L’immagine critico-algoritmica porta all’interno del mondo costituito dalla computer and data science una visione umana che, nella sua parzialità, consente un’interazione più attiva con i suoi fruitori. Essa è capace di educare chi guarda e, proprio attraverso la presa di coscienza del fruitore, plasmare il mondo, evidenziandone le problematiche. 
L’idea di una rappresentazione che educhi chi guarda non è una novità: l’immagine è da sempre stata elemento pedagogico fondamentale. La basilica superiore d’Assisi con il suo ciclo di affreschi di scuola giottesca ne è un esempio chiaro: si intendeva parlare ad una popolazione in grandissima parte non alfabetizzata. Come tale pratica a suo tempo ha permesso di rendere tutti partecipi delle narrazioni del tempo, allo stesso modo torna ad essere pedagogica nel mondo contemporaneo. Si crea un anacronismo interno alla storia dell’immagine (Didi-Huberman 2000), in cui il passato è lezione necessaria per il  presente. La rappresentazione critico-algoritmica si inserisce quindi a cavallo tra una contemporaneità automatizzata e un passato pedagogico, diventando strumento capace di comunicare a una popolazione che, abituata a un mondo sempre più rapido, ha bisogno di nuove modalità di apprendimento e conoscenza.

Presepe di Greccio, Assisi, Basilica Superiore, 1295-1299.

Iacopo Prinetti

Bibliografia