SUPERARE LE GABBIE SUPERANDO IL CORPO
Il concetto di mobilitazione, come azione diretta nel riconoscimento di esseri in movimento, può essere assunto dalla teoria e dalla prassi antispecista come rimedio ai sistemi di reclusione in cui sono isolati i corpi, animali e umani, in strutture intensive.
Come scrivono gli attivisti Marco Reggio e Niccolò Bertuzzi nel libro Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale[1] è indispensabile “un effettivo smontaggio dei meccanismi e dei presupposti che danno vita alle gabbie che tengono prigionieri milioni di animali, ma anche un numero sterminato di umani: ex-colonizzati, donne, disabili, migranti, individui variamente esulanti dal binarismo cis-gender, solo per citare alcune categorie di sfruttati/e”.
Quando gli animali irrompono nello spazio di predominio della specie umana problematizzano le sue tecniche totalizzanti e i suoi dispositivi di isolamento, sviluppando e proponendo nuovi interventi di emergenza per decostruire il sistema.
Interessante aspetto della storia femminista e antirazzista è il concetto di intersezionalità che ripensa all’identità di una persona come un elemento unito (in modo inestricabile) a vari fattori sociali e contingenti. Le concettualizzazioni classiche di oppressione – come ad esempio il razzismo, il sessismo, l’omofobia – non agiscono indipendentemente ma in modo interconnesso, creando un sistema che sottolinea l’incrocio di differenti forme di discriminazione. Attraverso un reale approccio “intersezionale” sarà possibile pertanto smontare le gabbie erette da gerarchie sociali capitalistiche.
La riflessione sull’animalità, non a caso, arriva a guardare lo stesso animale umano, poiché – come spiegano Reggio e Bertuzzi – i meccanismi di marginalizzazione e di normalizzazione della violenza sul più debole toccano le questioni dell’animalizzazione dei/delle migranti, delle donne, dei soggetti non eterosessuali e così via. Fra questi, giocano un ruolo rilevante le categorie del pensiero queer, della critica al binarismo e del pensiero decoloniale, all’interno delle quali il “subalterno” – non necessariamente appartenente all’umano – si pone come breccia di apertura del pensiero univoco e dei sistemi di coercizione.

In Animal Capital: Rendering Life in Biopolitical Times, la professoressa Nicole Shukin sottolinea in che modo il lavoro ottenuto dai corpi tecnologicamente imprigionati degli animali non umani sia legato alla circolazione degli animali come forma stessa di capitale. Essi sono stati e sono tuttora soggetti fondamentali per lo sviluppo del capitalismo, non solo in quanto strumenti e merci per l’accumulo della proprietà, ma soprattutto perché costituiscono una principale fonte di forza-lavoro. Gli animali oggi, coadiuvati dall’utilizzo di tecnologie totalizzanti, sono lavoratori sfruttati sia per il loro impiego produttivo sia per quello riproduttivo, nel quale si rintraccia, per le femmine, un plusvalore commerciale che, nel caso del latte, si estorce dal ciclo naturale.
Nel momento in cui si paragonano gli animali ai lavoratori si entra all’interno di una rinnovata prospettiva che introduce il concetto di “agentività” ovvero un’intrinseca resilienza da parte degli animali che arriva a contrastare i modelli estensivi di ingabbiamento. Gli animali, in quanto soggetti agenti, si rendono quindi visibili e attivi, contrapponendosi al principale compito del capitalismo di veicolarli come semplici simulacri da allevamento. Le cosiddette “aziende etiche”, ad esempio, propongono un modello di natura estremamente artificializzato, confezionando la fattoria tradizionale come un modello pittoresco facilitato dall’eccitazione mediale delle tecniche innovative.
Per “smontare le gabbie” bisogna allora superare la sfera unidirezionale dell’individuale e tagliare la via che va dall’umano all’animale, lasciando così che il movimento arrivi ai corpi. Bisogna adottare una prospettiva della “spaccatura”, come la definisce Donna Haraway in Manifesto cyborg (1995), secondo cui gli animali non sono trasparenti, ma dotati di una specifica densità resistente alle manipolazioni dell’umano. L’antispecismo si oppone alle retoriche capitalistiche che hanno bisogno di corpi immobili e si afferma invece come una “politica delle alleanze” non chimerica. Esso sostiene così un’interspecie delle relazioni e una riorganizzazione sociale che non sfrutti più nessun tipo di vita ma che accetti le differenze. Il fine ultimo non è trovare nuove costruzioni immaginifiche degli animali ma attivare rinnovate pratiche affinché umani e non umani si connettano per fare mondo insieme.

Il concetto di corpo, sia umano che non, è spesso analizzato nell’arte contemporanea come strumento di studio e messaggio politico e permette di costruire narrazioni fratturate che riposizionano l’individuo-animale all’interno di un simbolico scenario.
Si inserisce in questo senso la ricerca estetica dell’artista inglese Marianna Simnett che, influenzata dalla “seconda ondata” artistica del femminismo, propone con il suo lavoro di situare il corpo e il sé al centro dei dibattiti sulla società odierna. Unendo la struttura mitica delle favole con una forma documentaristica, l’artista realizza veri e propri film che raccontano storie non lineari di terrore fisico in cui la contaminazione, la malattia e la violazione si combinano ai temi della sessualità, dell’identità e della metamorfosi. Nei lavori Across The Udder (2014), Blood (2015) e Blue Roses (2015), ad esempio, il corpo – frammentato in vie digestive, passaggi nasali e reti circolatorie – fornisce lo scenario per una serie di racconti ora inquietanti ora malinconici interpretati da una squadra eterogenea composta da bambini, scarafaggi cyborg e vergini giurate. In ciascuno dei video, si è trasportati direttamente in un sistema biologico, umano o animale, minacciato da infezioni, malattie o disturbi di vario tipo. Il dentro e il fuori di un corpo vengono così alternati sviluppando narrazioni che mostrano scenari tra interno organico ed esterno macchinico.
La giocosità paradossale degli elementi visivi attenua l’orrorifico, stempera il cruento, portando lo spettatore all’interno di un’estatica e stravagante fiaba. I racconti moralmente cupi e le grottesche vibrazioni fantascientifiche sono inoltre teatralizzati da gruppi di non-attori (bambini, agricoltori, dottori) che confondono ciò che è reale da ciò che è immaginario e viceversa, filtrando l’immediata finzione della pellicola. Al centro di queste visioni in cui i corpi diventando altro da loro, emergono problematiche questioni socio-politiche che rimettono in discussione i concetti di vulnerabilità, autonomia e controllo. Tra la follia e le bizzarre contrapposizioni dei suoi mondi schizofrenici, Marianna Simnett rende reale lo spettro dell’affermazione cyborgiana secondo cui “siamo tutti chimere, teorizzati e fabbricati ibridi di macchina e organismo”. Lo spazio contestato della natura – affiancato metaforicamente a quello della virtù femminile – viene ora minacciato ora ricomposto secondo una prospettiva che permette di superare il pensiero individuale rivelando realtà subalterne contrapposte al dominio tecnico-capitalista.
In alcuni suoi lavori, la stessa artista si è sottoposta ad una reale coercizione fisico-clinica, come in The Needle and The Larynx (2016) dove accetta di modificare e abbassare il tono della sua voce mediante un intervento chirurgico alle corde vocali. Il corpo si mostra così al pubblico nella sua connaturata fragilità e lo stato di empatia che ne consegue è intrinseco al lavoro quanto l’orrore che lo attiva. Mentre il controllo della morte offre un corpo intero e passivo, Simnett ne evoca uno frammentato e alieno che, livellando ogni gerarchia specista e attivando viscerali e contrastanti emozioni, può arrivare a “smontare le gabbie” socio-politiche dell’oggi titanico e apocalittico. I corpi in metamorfosi creano così le modalità per affermare le transizioni come costitutive di ogni soggettività e non solo di quelle non conformi.

[1] Nell’articolo Quando brucia il tetto di una cattedrale (pubblicato su «Not – NERO magazine» il 30 aprile 2019) Federica Timeto analizza nella sezione “Gabbie” la questione animale e la teoria antispecista partendo dai saggi di Marco Reggio e Nicolò Bertuzzi.
Bibliografia
Donna J. Haraway, Chtulucene, Roma, NERO, 2019.
Donna J. Haraway, Manifesto cyborg, Milano, Feltrinelli, 1995.
Marco Reggio, Niccolò Bertuzzi, Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale, Milano, Mimesis, 2019.
Nicole Shukin, Animal Capital: Rendering Life in Biopolitical Times, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2009.
Federica Timeto, Quando brucia il tetto di una cattedrale, in «Not», 30 aprile 2019.