Non c’è tempo da perdere

La pandemia in atto ci ha colti impreparati sotto molti punti di vista, a cominciare da quello intellettuale. Per chi, come me, si occupa quotidianamente di teoria, la cassetta degli attrezzi è sembrata da subito piuttosto sfornita, inadeguata a descrivere l’attuale situazione di emergenza e a garantire valutazioni e soluzioni che siano utili per tutti. Eppure uno sforzo va fatto, si devono azzardare delle considerazioni perché si possa capire. Prendere appunti su ciò che credevamo di sapere e su quello che viviamo nel presente è forse il primo passo per tentare un bilancio, denunciare delle pieghe problematiche, formulare ipotesi.
Se chiudo gli occhi e penso a questi giorni in reclusione, nella testa si agita una folla di immagini: di immagini digitali. Gli schermi dominano il mio quotidiano, l’orizzonte del mio percepito. Fin qui, sembrerebbe, nessuna novità. Gli schermi digitali sono i dispositivi mediali per eccellenza del nostro tempo, superfici operative, che la ricercatrice Galit Wellner propone di considerare al contempo muri e finestre (Wellner 2011). A dire il vero, l’idea che percepiamo il mondo attraverso una finestra si è imposta nella cultura occidentale almeno a partire dall’età moderna, con le leggi rinascimentali della rappresentazione prospettica. Si tratta di una teoria che affonda le sue radici nella convinzione, ampiamente diffusa già nell’antichità, che l’occhio sia la prima finestra attraverso cui ci affacciamo all’esterno, su degli oggetti separati da noi (Carbone 2016). Gli schermi della televisione, del computer, del cellulare, di un qualsiasi smart device abitano lo spazio vissuto e quotidiano, sono una presenza ubiqua, portatile e alle volte indossabile. L’esperienza schermica digitale è oggi pervasiva, gli schermi sono la nostra finestra, e anche di più. In questo caso non abbiamo a che fare soltanto con una metafora impiegata a fini euristici: si tratta effettivamente di una via di accesso a un contesto di una differente materialità rispetto al mondo fisico, eppure reale (Wellner 2011). Secondo Wellner, infatti, computer e smartphone condividono la tendenza a distrarre l’attenzione del fruitore dai suoi dintorni, indirizzandola verso ambienti virtuali altri. In questo senso sono in grado di separarci dal contesto che ci circonda e contemporaneamente di fornire l’accesso a spazi remoti, privati o condivisi.
La catalizzazione della nostra attenzione, o meglio,la distrazione dal luogo in cui ci troviamo fisicamente, non è certo esclusiva delle tecnologie digitali e può essere considerata una caratteristica condivisa da tutti i media tecnologici. Attualmente però le tecnologie digitali sono a tal punto diffuse da essere in grado di garantire una costante interconnessione di luoghi e persone: ogni giorno siamo contemporaneamente dove si trova il nostro corpo e dove ci portano gli schermi. Per dirla con Don Ihde, veniamo così coinvolti in una “quasi-illusione” (Wellner 2011).
Il significato del termine “schermo” rimanda a qualcosa che nasconde alla vista, sia nel senso che fornisce una protezione sia nel senso che comporta un impedimento: è una superficie che mette in evidenza qualcosa e che, proprio per questo, contemporaneamente esclude qualcos’altro (Carbone 2016). Ciò che rende visibile è frutto di una selezione, esso mostra secondo le sue modalità delle porzioni di spazio, tempo e informazione, educando bisogni e desideri del fruitore insieme alle sue abitudini percettive. Gli schermi del nostro quotidiano raccolgono immagini, video, testi, consentono di parlare con altre persone e funzionano ormai quasi tutti tramite il tocco delle dita. Onnipresenti e interconnessi, ci guardano mentre li guardiamo, modificando il modo in cui interpretiamo il mondo e in cui ci comportiamo.

Hyper-Reality, Keiichi Mastuda, 2016.
Hyper-Reality, Keiichi Mastuda, 2016.

Come ricorda Mauro Carbone, per tutti questi motivi tanto Vivian Sobchack quanto Lev Manovich hanno insistito sulla loro natura quasi-soggettiva, dal momento che impongono, alle volte in maniera aggressiva, le proprie scelte. Il loro contenuto non è affatto neutro. Se è vero che oggi i sistemi di controllo hanno raggiunto livelli inimmaginabili di capillarità, questo non vuol dire che gli schermi mostrino qualunque cosa a chiunque in maniera trasparente e oggettiva. Tale circostanza si riassume certo in un regime di esposizione e di raggiungibilità, ma non di totale visibilità: gli schermi elicitano una percezione e un desiderio storicamente determinati e parziali, come qualunque altro medium. Le finestre digitali non servono soltanto a incorniciare l’oggetto di una contemplazione, ma suggeriscono direzioni e relazioni possibili, da praticare concretamente. Sono finestre solo in quanto si tratta di aperture che possono essere valicate e superate. Attraverso gli schermi infatti non osserviamo soltanto, ma interagiamo con l’altro in generale, entriamo in una relazione operativa con l’esterno. Essi non si limitano a restituire una registrazione compiuta di una serie di avvenimenti, reali o immaginati, ci consentono anche di agire nel momento stesso in cui le cose accadono. 
Negli ultimi vent’anni dunque abbiamo imparato a conviverci, impiegandoli per una vasta quantità di utilizzi. Gli schermi fanno parte della nostra realtà e, al contrario di quanto si sente spesso ripetere con toni apocalittici, non ci hanno risucchiati al loro interno, instupidendoci irrimediabilmente. Con buona pace dei detrattori del digitale, cambiando la nostra relazione con l’ambiente le nuove tecnologie hanno aumentato alcune delle nostre potenzialità, atrofizzandone altre, come accade in generale nel rapporto con gli oggetti tecnici: modificando le modalità di interagire con il mondo, alteriamo noi stessi.
La mediazione degli oggetti digitali influisce costantemente sulla percezione del mondo, ma si accompagna normalmente a mediazioni di altro tipo. Ciò che in tempo di Covid-19 si impone come una novità problematica è la drastica contrazione dell’esperienza che esuli dall’utilizzo di un dispositivo digitale. Il quotidiano, ormai da qualche mese, è per gran parte della popolazione mondiale schiacciato sulle due dimensioni dello schermo, che lasciano fuori il nostro corpo e le sue esigenze. A due dimensioni si sono fatte la convivialità, le relazioni amorose, il lavoro, l’istruzione. Con l’eccezione degli occhi e della voce, alcune dita della mano, il corpo è stato bruscamente tagliato fuori, è stanco e confuso. Come nota Manyu Jiyang in un articolo della BBC, citando gli studiosi Gianpiero Petriglieri e Marissa Shuffler, le menti sono connesse, ma non i corpi, che instancabilmente vanno alla ricerca di informazioni non corrispondenti alle aspettative. Dovendo affidare al computer o al cellulare la totalità della comunicazione con l’esterno, ci troviamo spesso osservati in volto da una moltitudine, di frequente poco nitida. Mentre parliamo o ascoltiamo, l’audio salta, si inceppa, le figure si bloccano, durante la performance che mettiamo in atto davanti a un gruppo di persone più o meno note, la nostra immagine si congela in una posa imbarazzante. Senza soluzione di continuità, lo spazio pubblico e quello privato sono collassati l’uno sull’altro, costretti fra sole quattro mura. Le nostre case esposte, noi perennemente al centro dell’attenzione, dobbiamo faticare più del solito per costruire una rappresentazione della nostra persona e del nostro privato che possa risultare soddisfacente.
Se è indubitabile che solo grazie agli schermi abbiamo potuto mantenere molte delle attività quotidiane, il modo in cui li stiamo utilizzando ci prova fino a sfinirci. 

Classic perspective vs Hyper Geography by TBD.

Non manca chi lodi il presente poiché, si ritiene, ci avrebbe liberati dagli affanni di prima, portando con sé un tempo ritrovato da assegnare alla propria cura, all’arte e alla lettura. La cultura si può facilmente tradurre e produrre in formato video in streaming, è raggiungibile in modo più democratico. “Il mondo era troppo” scrive in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk, domandandosi se il virus non ci abbia forse allontanati dagli eccessi del mondo contemporaneo, restituendoci a un ritmo di vita a misura d’uomo e al nostro rifugio casalingo. Tokarczuk dichiara che il confinamento non le pesa, non le pesa la chiusura di cinema e centri commerciali (operando, peraltro, un accostamento tra un luogo di consumo e uno di diffusione di cultura che mi sembra del tutto ingiustificato). Accessoriamente, la scrittrice rivolge un pensiero a quanti abbiano perso il lavoro e prospetta un futuro distopico a seguito del periodo di quarantena.
Il sospetto è che ragionamenti di questo tipo si appoggino sulla tranquillità economica di chi scrive, confinato sì, ma con un computer, in una bella casa, in piacevole compagnia, nella condizione di potersi permettere di silenziare tutto e tutti. Gli altri, la maggioranza probabilmente, devono adattarsi ai cambiamenti imposti dalle necessità dello schermo: o si è tagliati fuori o si lavora a ritmo costante. Se infatti non vogliamo spingerci a considerare anche coloro che non possiedono un computer, un cellulare o non hanno a disposizione una rete wi-fi, che forse sono comunque più di quanti immaginiamo, basti pensare a una famiglia qualsiasi, con adulti che lavorano, magari più di un bambino che va a scuola. Non molti possono vantare un computer a testa, l’organizzazione è complessa, a qualcosa bisogna rinunciare per forza. Chi non riesce a partecipare perché impossibilitato a farlo finisce per essere l’unico responsabile e colpevole delle proprie mancanze. Dal momento che il confronto con il virus ci impegnerà per i prossimi mesi, è necessario prendere coscienza di quali e quante siano le implicazioni del nostro rinnovato rapporto con gli schermi, strumenti sui quali inevitabilmente faremo leva per continuare le nostre vite. Fin da ora, risulta piuttosto evidente il segno di un pericoloso discrimine sociale, che impone una serie di domande per il futuro. Ad esempio, come Carbone ha già fatto notare in un articolo su Fata Morgana Web, dal momento che molte delle attività culturali e lavorative sono state trasferite su piattaforme telematiche si prospetta la possibilità che questa modalità venga impiegata ampiamente anche sul lungo periodo: perché organizzare costose conferenze internazionali quando i singoli ricercatori possono partecipare dai loro appartamenti, comodamente seduti in poltrona? Perché non sostituire gli incontri di formazione in presenza? E le lezioni a scuola o all’università?

Art Workers Italia.

Soprattutto mi pare che, esattamente al contrario di quanto sostengono i facili, e acritici, entusiasti del momento, il mondo dell’arte e della cultura sia fra quelli che riporteranno le ferite più gravi. Come ha messo bene in evidenza il movimento AWI (Art Workers Italia), gruppo nato dall’associazione spontanea di lavoratrici e lavoratori impegnati a vario titolo per l’arte contemporanea in fondazioni e musei, pubblici e privati, chi è impiegato nella cultura in Italia è costretto di frequente a lavori irregolari, discontinui e sottopagati, e si ritrova in emergenza a venire escluso da forme di tutela statale e dagli ammortizzatori sociali. Il manifesto di AWI, significativamente datato al primo maggio 2020, chiama a raccolta i lavoratori del settore, sostenendo la necessità di associarsi alle istanze di tutti i precari sul territorio nazionale e di avanzare rivendicazioni, basate anche sullo studio delle buone pratiche già sperimentate all’estero. AWI sottolinea che la situazione straordinaria dovuta al Covid-19 ha messo in luce un malcostume del tutto ordinario: la convinzione che chi si dedica all’arte possa campare di gloria e non sia perciò da considerarsi un lavoratore come gli altri. Il risultato sconfortante è che l’arte contemporanea è uno fra i contesti che in Italia si distinguono per la produzione di precariato.
La tele-cultura di questi giorni non ha portato con sé un tempo ritrovato e colto, piuttosto ha tagliato le gambe a dei lavoratori già fragili. AWI insiste nel mettere in evidenza come enti pubblici e privati abbiano infatti richiesto la produzione gratuita di materiale da condividere sul web: la visibilità che ne risulta dovrebbe rappresentare un giusto compenso. La crisi ha messo in evidenza un sistema malato, gli art workers italiani si sono associati per cercare delle soluzioni. Il caso di AWI è un esempio virtuoso di come possiamo usare Internet e gli schermi in tempo di crisi. Adottare un approccio critico nei loro confronti non significa infatti indicarli come il problema del momento. Grazie a essi si è potuta costituire una rete di discussione e collaborazione orizzontale, per raccogliere le proposte di tutti, avanzare richieste concrete e apportare modifiche che valgano nell’immediato e a lungo termine.
Certo c’è stato un cambiamento nel tempo vissuto. Chi ha conservato il proprio lavoro ha visto distribuirsi gli impegni lungo tutta la giornata, è più facilmente raggiungibile (e raggiunto) e ha ben poco da dedicare, in termini di tempo e di energie, a svaghi di vario genere. Il tempo di chi il lavoro l’ha perso o non riesce a trovarlo sarà pure vuoto, ma di sicuro non libero, venato dall’angoscia della propria precarietà.
In generale, tutti veniamo bombardati da contenuti di intrattenimento non stop guidati dall’ossessiva vocazione alla produzione costante, certo anche una risposta comprensibile all’ansia dettata dal virus.
In definitiva, il tempo è proprio ciò che mi sembra ci sia mancato di più. Un tempo che sia davvero libero, che lasci spazio alla riflessione senza costrizioni, alla creatività, all’imprevisto. Un sano perder tempo.

S.P.

Bibliografia:

Carbone, M 2016, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano.

Wellner, G 2011, “Wall-Window-Screen: How the Cell Phone Mediates a Worldview for Us”, Humanities and Technology Review, vol. 30, pp. 87-103.

Sitografia:

The reason Zoom calls drain your energy, 22 aprile 2020.

Vi facciamo vedere noi (chi siamo), 10 aprile 2020.

Coronavirus, la verità è che per noi cambierà l’intera esistenza, 2 aprile 2020.

Art Workers Italia, 1 maggio 2020.