KITSCH MONUMENTALITY.
PER UN’ANTROPOLOGIA DELLE IMMAGINI MONUMENTALIZZATE

“Squidward: What is that?
Spongebob: Your very own statue!
Squidward: Really?! …Garbage. I’m made of garbage.
Squilliam: Great job Spongebob. You even captured his smell! The scent of failure”.
(Spongebob, Stagione 7, Episodio 5, 2010)

Da Michael Jackson a The American Monument

La superstar dei Lakers Kobe Bryant, immortalata in Cina con un monumento davanti alla Guangzhou Academy of Fine Arts, dialoga a distanza con la statua di Shaquille O’Neal in un parco di Pechino. A Zitiste, villaggio a Nord di Belgrado, capeggia la statua alta dieci piedi di Sylvester Stallone nelle vesti di un Rocky, così come succede con Manuela Arcuri a Porto Cesareo. E ancora, statue di celebrità in tutto il mondo: Johnny Depp e Bob Marley in Serbia, Michael Jackson a Londra, John Lennon a Cuba, Bruce Lee in Bosnia, Jean-Claude Van Damme a Bruxelles, Arnold Schwarzenegger in Austria.
Una galleria di immagini che mi ricorda The American Monument (1976), progetto di Lee Friedlander edito da Eakins Press composto da una serie di 213 fotografie che rappresenta alcune statue in relazione allo spazio pubblico circostante, composto perlopiù da edifici architettonici e mute tracce di vita quotidiana. La relazione con il contesto però è dinamica, il monumento statuario include i suoi immediati dintorni. In alcuni casi il soggetto è visivamente incidentale rispetto alla composizione o addirittura parzialmente oscurato. Si tratta di un’enfasi cruciale perché comunica quanto per Friedlander il vero soggetto non sia la statua, ma la relazione dinamica tra le parti, tra il monumento (nella sua apparente permanenza) e la sua posizione, il suo contesto fisico che cambia continuamente per riflettere i valori della comunità. Penso ad esempio alla rappresentazione di Father Duffy, uno dei soggetti della serie, sovrastato da cartelloni e schermi pubblicitari nell’omonima frenetica piazza newyorkese. 
Una mappatura di immagini di questo genere, sul finire degli anni settanta, non era impresa semplice: le testimonianze che l’artista ha potuto raccogliere nell’arco di dodici anni, viaggiando da una costa all’altra degli States, sono oggi a portata di click. Dal 1976 anche il panorama sociale si è evoluto e la funzione propagandistica dei monumenti pubblici è stata di recente serio oggetto d’indagine. Le immagini raccolte da Friedlander oggi non possono essere osservate, percepite e situate come una volta.
Pur in un’inesauribile gamma formale e iconografica, nell’opinione comune il monumento è stato considerato nei secoli simbolo di virtù civica e orgoglio patriottico, così come lo spazio pubblico è stato da sempre battagliato e requisito dalle autorità con il fine ultimo di orientare le narrazioni storiche. Eppure, con l’avvento di Google Maps Street View e l’enorme archivio globale di immagini digitali, l’esperienza di Friedlander non può di certo essere la stessa per il viewer contemporaneo. Se l’umorismo e il pathos della statuaria sono rimasti invariati nella loro operatività, la potenza dell’immagine digitale oggi sembra sfidare la rappresentazione fisica equivalente. Silvia Bottani, parlando di kitsch in un’intervista su “Doppiozero”, sostiene che “la proliferazione di voci, di canali e piattaforme, il costante flusso di immagini e informazioni alimentato da blogger, influencer, autori, semplici utenti, genera un magma indifferenziato in cui l’opera è destinata a transitare brevemente e sparire subito dopo, dimenticata” (Bottani 2020). Ma non è proprio così. La recente polemica sulla statuetta della Madonna del presepe di Pontedera che si affaccia sulla piazza principale del paese toscano e raffigura il volto dell’influencer Chiara Ferragni, dovrebbe esserne una controprova (Ansa 2020). Nell’epoca contemporanea bisognerebbe piuttosto chiedersi quali specchi [1], vivi o morti, nutrono attraverso l’immaginario monumentale una narrazione kitsch e narcisistica di individuo e collettività.

statua di freddie mercury
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Dai souvenirs di L.O.V.E. al Monte Rushmore di Trump. L’immagine operativa dinamica

I primi anni Duemila, Silvio Berlusconi, Emilio Fede e il Grande Fratello sono ormai acqua passata. Attribuire oggi al mondo televisivo, epifenomeno della società dello spettacolo, la responsabilità degli atteggiamenti sopra descritti, sarebbe riduttivo. Siamo di fronte a un lungo processo che ha portato alla nascita del pop-kitsch, categoria che, concepita alla fine degli anni sessanta, agli albori del postmoderno, è giunta al tempo della globalizzazione tecnologica e conformista, dove la falsificazione diventa autenticità, il simulacro archetipo e la copia modello (Mecacci 2014). 
È quindi possibile affermare che il kitsch sia un fenomeno catalizzatore della storicizzazione del presente, frutto del rapporto tra la monumentalizzazione di personaggi celebri, appartenenti al mondo dello spettacolo o alla cultura popolare, e l’immagine-icona digitale tipica delle mid e low cultures, trash, mainstream, intrattenitiva e virale. Per comprendere questa direzione, può rivelarsi interessante una piccola considerazione: in passato la storia veniva rappresentata dalla statuaria all’interno dello spazio pubblico, letteralmente colonizzato da personaggi ragguardevoli per quella contemporaneità, valutati sulla base di valori etici e veicolati attraverso valori estetico-rappresentativi. Ciò che oggi sembra invece mancare è una riflessione sulla significazione alla base del processo di monumentalizzazione.
Innanzitutto, nel panorama attuale – e in seguito ai processi di digitalizzazione dei nostri profili, veri e propri avatar che agiscono in uno spazio tutto fuorché neutro – è opportuno decostruire la nozione di spazio pubblico conosciuta de facto, e riadattarla al mondo del web. Viviamo in un sistema iperstimolato dal culto della personalità, alimentato da immagini virali che parlano di altre immagini, dove Narciso non solo si specchia, ma diventa virale. Ci troviamo di fronte a personaggi che, prima di impadronirsi dello spazio pubblico, colonizzano il nostro immaginario e la cultura visuale. Prima della copia materiale, assistiamo a milioni di infinite riproduzioni e copie visive, fisiche e digitali, che sembrano essere assai più interessanti del vero soggetto in questione. Oggi statue e altarini del kitsch veicolano nel reale un reenactment di una narrazione inesistente, simbolica e tautologica. In questo modo il Kitsch si fa portatore di un modello culturale, diventando neo-kitsch, definizione data da Dorfles nel 1968 che oggi si potrebbe associare non solo all’oggettistica e alla monumentalità spiccia, ma anche all’immagine operativa digitale tecno-logica. Un meccanismo per cui la persona-viewer finisce per attribuire a un determinato personaggio o simbolo qualità tali da renderlo un soggetto mitico che riveste tutte le essenziali caratteristiche di un surrogato, ovvero di grossolanità e “pacchianità” dell’immagine, punto-chiave del processo di kitschizzazione (Dorfles 1968).
Possiamo esemplificare questi meccanismi attraverso due casi: le infinite riproduzioni e vestizioni di L.O.V.E. dell’artista Maurizio Cattelan e la creazione di micro statue che includono Trump nel Monte Rushmore. Nel celebre caso di Piazza Affari, il monumento si è più volte prestato ad attività di marketing e merchandising che hanno modificato (forse minato, forse potenziato, in perfetto stile Cattelan) il significato dell’opera di partenza; dall’operazione di Greenpeace a quella di Netflix con La Casa di Carta, alle edizioni in boule de neige firmate Seletti, fino alle t-shirt realizzate da MSGM. Il caso del Monte Rushmore è ancor più ironico e curioso: è bastato che i media statunitensi veicolassero un’informazione bizzarra – peraltro mai ufficialmente confermata dalla Casa Bianca – sul fatto che Trump avesse rivelato alla governatrice repubblicana del South Dakota Kristi Noem di voler essere parte del monumento ai Padri fondatori degli Stati Uniti d’America [2], che Internet si è trovato pieno zeppo di meme e fotomontaggi, mentre Amazon vendeva piccoli gadget-monumento modificati con il volto del Presidente a poche decine di dollari.
In entrambi i casi, che si tratti di accadimenti avvenuti o solo immaginati, l’esperienza che noi ne facciamo è conosciuta, veicolata e comprovata più attraverso le immagini che attraverso l’esperienza empirica. Ci troviamo davanti a una fenomenologia visiva fagocitante e in espansione, che non tiene conto della funzione semantica originale, se non trattando l’immagine come icona. È quindi lo scarto, l’immagine povera di Hito Steyerl, a diventare il principale territorio d’azione: l’immagine non riguarda più “ciò che è reale – l’originale originario – ma le sue stesse condizioni di esistenza reale” (Steyerl 2007, p. 8). Dunque, se è vero che le immagini operano sul mondo e che gli oggetti da sempre esercitano una funzione sul mondo (e il caso specifico del kitsch monumentale ne è un esempio), si può affermare che ci troviamo di fronte a un’immagine operativa dinamica: non si può più parlare di una differenziazione tra spazio fisico e digitale, quanto piuttosto di un continuo movimento oscillatorio tra le due realtà.
Oggi l’oggetto in senso materiale non è più il centro del kitsch. Nell’epoca dei social network, la “contraffazione” si trasforma in “coazione” (Carmagnola 2012), il sentimento dell’essere umano si evolve in “sentimentalità”, nel sentimento di secondo grado, e il campo estetico diventa immateriale, assumendo il ruolo di centro propulsivo del sistema produttivo attuale (Belpoliti 2016 [2020]). A questo punto, è possibile applicare a questo ambito d’indagine la teoria di Harun Farocki, secondo cui la digitalizzazione è in realtà un processo di ri-materializzazione dell’immagine. L’immagine oggi, anziché “un lento e vecchio cavallo”, è diventata un dryman’s horse, ovvero colei che il cavallo lo conduce (Farocki 2008). Questa ri-materializzazione agisce orizzontalmente sia online che offline, ed è capace di influenzare tanto la cultura tradizionale, rappresentativa e visuale, quanto quella più recente, alimentata da dispositivi e strumenti digitali.
Se considerate all’interno di uno spettro più ampio e tecnologico, in un sistema operativo del mondo basato sull’agentività dell’immagine, le statue e i piccoli gadget-monumenti non sono solo immagini create, ma anche immagini che creano, in un continuum spazio-temporale tra immagini digitali, digitalizzate e immesse nel mondo fisico. 

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I cartelloni pubblicitari sono quasi ok. One way to the Kitsch

Se le “immagini monumentalizzate” sono interconnesse con quelle digitali in un unico universo mediato, trascurare il loro impatto sulla nostra vita nello spazio pubblico, e più in generale sulla società, sarebbe un errore. Negli spazi condivisi infatti l’immaginario medializzato può costituire un grave allarme poiché rischia di sostituire la spinta a un aggiornamento in chiave plurale della rappresentatività monumentale, tipica dell’Occidente, con un consumismo gregario, capace di investire anche gli spazi pubblici. L’etica e la legittimità della statuaria eretta a testimonianza della storia occidentale non è in questo testo materia di indagine, lo è invece il modello parallelo e de-culturale che si sta imponendo. Più importante, in questa sede, è capire come orientarsi di fronte al fenomeno delle “operational kitsch statues” che, appropriandosi della tradizione statuaria e dello spazio pubblico, rispondono a un’esigenza culturale non consapevole e soddisfano una certa domanda commerciale. Al di là di una riflessione sulle decisioni e concessioni amministrative relative all’inserimento nello spazio pubblico-commerciale-globalizzato di tali elementi, la ricezione di questo tema da parte di singoli individui e collettività rimane una questione fondamentale [3].
Il concetto di prosumer trova una proto-definizione nel termine “uomo kitsch”, ovvero colui che veicola i contenuti che lui stesso produce (Greenberg 1939). Una condizione che si può associare a sua volta al concetto di deculturazione: “se il mondo è quello che ti facciamo vedere, allora tu sei migliore. I media non creano, ma coltivano e promuovono e gratificano l’imbecillità: perché fa vendere e fa votare” (Eco 2015), sosteneva Eco con fare provocatorio. Il Kitsch insomma crea un pericoloso quanto affascinante connubio tra istanze politiche ed entertainment ed è consolante per tutte le fazioni e le realtà sociali capaci di cogliere una gratificazione emozionale istantanea.
Il rischio, ahimè, è quello di creare una falsa liberazione dagli impicci della vita quotidiana, trasferita sul piano del (cattivo) gusto. Con l’avvento del Dio Algoritmo, la responsabilità d’azione etico-estetica grava perlopiù su odierni creatori di immagini e interfacce (persone con minime capacità tecniche e grafiche) poiché nelle loro mani è posta un’arma capace di guidare e indirizzare il gusto dell’uomo “di strada”, fulcro della società contemporanea nelle sue derive trash.
Peraltro, il concetto di Algoritmo va a braccetto con quello di conformismo: si parla oggi di razionalità digitale e già da inizio Novecento alcune teorie sostenevano che nel Kitsch risiedesse il conformismo (ovvero il desiderio di reiterare e confermare lo status quo delle abitudini sociali e culturali correnti, senza assumersi il rischio di sovvertire abitudini e convenzioni comunemente accettate). Si diceva che quando il Kitsch appariva, definiva l’attitudine di chi si appiattiva sulla conferma dei luoghi comuni, delle opinioni correnti e dell’apprezzamento degli oggetti graditi dai più (Broch 1975 [2018]), così da essere condivisi da una grande quantità di persone (Kundera 1984). Per questo motivo i soggetti del Kitsch non possono dipendere da una situazione insolita, ma si collegano invece a immagini globali o globalizzate inculcate nella memoria, che giocano su una retorica populista, narcisista e autoreferenziale che difende l’identità in quanto tale. In altre parole, l’uso reiterato di immagini kitsch, se esperito attraverso automatismi associativi e visuali, annienta il bisogno di uno sguardo critico e situato. 
Il fatto che il Kitsch, per quanto detestabile, faccia parte della nostra condizione umana, non lo rende per questo più consolante. Il concetto ormai non appartiene più solo al mondo dell’estetica, è diventato una categoria antropologica che abbraccia tutte le dimensioni umane, urbane e algoritmiche del vivere. Non è negando la merda di Milan Kundera [4] che emerge nell’ideale estetico del Kitsch un ideale etico; esso può e deve essere frequentato, ma consapevolmente.
“Le pubblicità sono quasi ok”, scriveva l’architetto Robert Venturi nel 1972 parlando della presenza o meno di un’etica della pubblicità (Venturi 1972, p. 24). Oggi, alla luce di un’immagine pubblicitaria che è traslata in una dimensione a tutti gli effetti organica, in un’accezione che concepisce un’immagine che opera sui nostri stessi corpi, diventati formule iconiche di marketing pronte per una proliferazione dinamica e statuaria capace di insinuarsi persino nello spazio pubblico, è auspicabile assumersi una certa responsabilità e sviluppare la capacità di renderci consapevoli del valore etico di quel quasi. È in quello scarto, in “quell’ambigua condizione del gusto” (Dorfles 1968) che risiede la risorsa contemporanea dell’immagine operativa-dinamica-kitsch.

Irene Sofia Comi

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statua di gesu in ohio
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[1] L’associazione del termine “specchio” al concetto di monumento si può trovare in Geoff Dyer: “Monuments after all, are also mirrors” (Dyer 2017).

[2] In merito si vedano: Flores D’Arcais, A, “Usa, la richiesta della Casa Bianca: “Anche Trump tra i volti del Monte Rushmore”, La Repubblica, 9 agosto 2020 [https://www.repubblica.it/esteri/2020/08/09/news/usa_il_sogno_di_trump_anche_il_suo_volto_tra_i_presidenti_scolpiti_nel_mount_rushmore-264275558/]; CNN, NYT: WH reached out about adding Trump to Mount Rushmore, CNN, 8 settembre 2020 [https://edition.cnn.com/videos/politics/2020/08/09/new-york-times-trump-mount-rushmore-nr-vpx.cnn].

[3] Bisogna specificare che alcuni dei monumenti riportati in apertura dell’articolo sono stati eretti su proprietà privata, e quindi voluti da privati, anch’essi singoli individui.

[4] Termine tratto da L’Insostenibile leggerezza dell’essere  in cui Milan Kundera afferma che “il disaccordo con la merda è metafisico” e “da ciò deriva che l’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch […] Il Kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile (Kundera 1984 [2018], p. 268).

Bibliografia e sitografia