J’ai mal à l’autre

L’abbraccio e il bacio più lenti della storia avvengono, con dei movimenti pesanti e morbidi, sul pavimento di un grande museo. Il pubblico guarda attonito una scena che sembra accadere al di fuori della sfera del reale. Questa “situazione costruita”, come la definisce il suo autore, è The Kiss, creata da Tino Sehgal nel 2003.


Sospirare per la presenza corporea: le due metà dell’androgino sospirano l’una per l’altra, come se ogni respiro, incompleto, volesse confondersi con l’altro: immagine dell’abbraccio, in quanto esso fonde le due immagini in una sola: nell’assenza amorosa io sono, tristemente, un’immagine staccata, che si secca, ingiallisce, s’accartoccia”.

Lontani sembrano i giorni in cui le distanze fisiche potevano essere ridotte. La ridefinizione degli spazi che il nostro corpo può occupare non ci è mai stata insegnata, e nemmeno può essere riassunta in un infinito mare di regole. Un metro e mezzo può significare un’infinitudine di dettagli persi, di incontri mancati.
Nella sfera privata del domestico mettiamo questa angoscia da parte e ci avviciniamo, tanto quanto ci è possibile, all’immagine dell’Altro, inchiodata e racchiusa spesso in uno schermo. Le dita scorrono veloci sulla tastiera e gli occhi scrutano impazienti le forme che emergono da uno sfondo nero, un buio totale. I corpi si muovono veloci e i respiri si intrecciano; il sudore cola e il cuore batte forte.

Tino Sehgal, The Kiss, 2002, exhibition view at MoMA, New York.


Lo sguardo dell’osservatore vola da una forma all’altra e ci si sente sempre più dentro quell’immagine.
L’Altro, gli Altri, siamo noi; tutti siamo parte dello stesso corpo. Sorrido e penso alla teoria dello specchio di Lacan e il bambino che sente la mancanza del seno della madre come l’impossibilità di soddisfare i propri bisogni (Lacan 1974). Nella sfera dell’autoerotismo non si è mai soli, raffiguriamo altri esseri nella nostra mente con talmente tanta forza, che riusciamo a credere che le mani non formino più parte del nostro corpo. E a quel punto non coincidiamo più con noi stessi.
In questo modo il chiasma della percezione [1] teorizzato da Merleau-Ponty esplode. Apriamo gli occhi e quell’immagine sparisce, ma restiamo sempre noi. Non siamo solo nel mondo ma lo formiamo; siamo carne del mondo, allestita per uno spettatore esterno.

Come dice Hal Foster nel Ritorno del reale, da una parte Lacan distingue tra il guardare (o l’occhio) e lo sguardo, e dall’altra si avvicina a Merleau-Ponty nel situare questo sguardo nel mondo (Foster 1996, p.140). Per Lacan lo sguardo esiste ancora prima del soggetto, il quale, guardato da ogni parte, è solo una “macchia” nello “spettacolo del mondo”. Più di Sartre e Merleau-Ponty, Lacan sfida il vecchio privilegio del soggetto auto-consapevole della propria vista (altresì detto il mi vedo vedere, aspetto fondante del soggetto fenomenologico), e al contempo supera l’impostazione secondo la quale al soggetto dovrebbe essere accordata una posizione privilegiata nella rappresentazione. Il soggetto lacaniano si trova ad assumere una doppia posizione: lo studioso illustra la sua idea di visione immaginando due coni, l’usuale cono della visione che emana da un soggetto e quello emanato dall’oggetto in direzione dello sguardo del soggetto.

Il primo cono dell’immagine è quello più familiare, si può ricondurre direttamente alla prospettiva rinascimentale: qui il soggetto padroneggia l’oggetto, disposto appositamente per il suo sguardo. Lacan però puntualizza che il primo cono non è semplicemente orientato verso il punto geometrico dal quale emana l’immagine, poiché essa viene riproiettata sul fondo dell’occhio, generando un cono nella direzione opposta. L’immagine si trova dunque dentro l’occhio del soggetto, e l’io si ritrova inevitabilmente all’interno dell’immagine (Lacan 1973, p.89). Questa affermazione equivale a dire che il soggetto è anche sottoposto allo sguardo dell’oggetto. Per questo motivo Lacan presenta una sovrapposizione dei due coni, che comporta la sovrapposizione dello sguardo, del soggetto e dell’immagine schermo. L’ultimo termine è per Foster oscuro: “l’immagine schermo” viene intesa come una superficie o un sottile strato che media lo sguardo-oggetto per il soggetto, ma che al contempo protegge il soggetto dallo sguardo-oggetto (Foster 2006, p.141).

Foster dice che per Lacan gli animali sono colti dallo sguardo del mondo, essi sono là solo in mostra. Gli esseri umani non sono invece ridotti alla “cattura immaginaria”, perché possono accedere al piano del simbolico, allo schermo inteso come sito del mostrare e osservare delle immagini, dove possiamo “manipolare e moderare lo sguardo” (Foster 2006 p.141).
L’uomo infatti sa come giocare con lo schermo, manipolando questa maschera dietro cui si cela lo sguardo. Lo schermo si pone dunque come il luogo dietro al quale il soggetto può osservare l’oggetto senza venire accecato dal suo sguardo, senza venire toccato dal reale. Questo stare nel mondo insieme ad altri, essere altro-da-sé si ripercuote direttamente sulla nostra volontà di guardare immagini in cui corpi altrui cancellano i propri limiti, e si fondono in nuove forme.

La natura dell’immagine pornografica è cambiata molto durante gli ultimi anni, dai giornali playboy anni cinquanta, ai film in VHS o quegli trasmessi nelle ore notturne in qualche canale a pagamento, fino ad arrivare ai video in streaming o in diretta. L’atto di visionare immagini in movimento è condizionato dall’esperirle come vicine alla realtà, come dirette produttrici di una visione corporea o incarnata. I video prodotti dall’industria pornografica e di facile accesso in rete vengono girati con apparecchiature che offrono un’alta definizione dell’immagine, sfruttando raffinate tecniche di ripresa del suono e set creati per l’occasione. La drammaturgia che le caratterizza, i semplici dialoghi che danno vita alle nostre più nascoste fantasie, ci sorprendono con una scioccante impressione di realtà. Il mondo irrompe nel nostro privato. In particolare, l’uso di determinati piani di ripresa fa sí che l’identificazione fra soggetto e immagine sia talmente forte che il corpo dell’Altro potrebbe essere il nostro, possiamo giocare anche con la possibilità di andare al di là del nostro corpo e sentire le sensazioni di generi e genitali che non ci appartengono. Penso a tutte le riprese di fellatio in cui, spesso inquadrate dall’alto, si vede come la persona realizza l’atto. Diversi sono i casi in cui la ripresa e il cadrage scelto ci permettono di avere uno sguardo della situazione altresì impossibile.
Il soggetto diventa portatore di uno sguardo onnipotente e gode del privilegio di essere tutti e nessuno allo stesso tempo, sensazione acuita dal fatto che osserviamo mentre ci masturbiamo. È qui che si registra l’apice delle unioni tra i corpi. Può accadere che non percepiamo più le nostre mani come appendici, diventiamo l’Altro nell’immagine. Siamo sia spettatori che attori di una scena che ha luogo contemporaneamente nella nostra casa e sullo schermo.
Si potrebbe dunque affermare che la masturbazione si costituisca come un modo di leggere le immagini pornografiche, generando una determinata modalità di interpretazione delle stesse (Ullen 2009).

In questo testo ho voluto accostare l’espressione “immagine schermo” utilizzata da Lacan con il dispositivo tecnologico che ci permette di fruire le immagini. La sensazione di essere catapultati nel reale, attraverso la visualizzazione di immagini iperrealistiche, innesca l’illusione di un viaggio mentale nel quale abbandoniamo la stanza per essere una sola cosa con lo schermo. Mentre i video pornografici imitano la realtà fingendo che la mediazione della telecamera non esista, un altro modo di consumare immagini pornografiche può essere attraverso le fotografie. Le fotografie però operano frammentando il reale in una serie di istanti, facendolo diventare un enunciato che non sarà raggiungibile [2].
Qui risiede il paradosso poiché sono proprio le immagini in movimento quelle spesso più mediate, ma sono coloro che simulano la realtà in modo maggiore. È nello scarto fra queste due tipologie di immagini che si posiziona la serie di fotografie Nudes di Thomas Ruff. In questo testo si ripercorrono alcuni elementi della fotografia con una breve analisi di ispirazione semiotica in cui si osserva come l’artista tedesco crea una rottura, ferisce l’immagine pornografica attraverso una tecnica di schermatura chiamata blurring o sfocatura. L’azione di “eliminare la quarta parete” propria dell’industria pornografica viene qui ribaltata e messa in discussione grazie alle qualità plastiche dell’opera, che vanno ad offrire un significato altro rispetto a quello solitamente dato dalla figuratività della fotografia [3].
Ruff presenta una serie di fotografie che raffigurano scene sessuali di diversa natura, congelate in un istante le quali sono state trovate su Internet e successivamente editate allo scopo di rendere difficoltosa la rappresentazione figurativa dell’atto. Ruff osserva la proliferazione di immagini di natura sessuale sul web all’inizio degli anni 2000, le quali hanno una risoluzione talmente bassa da non soddisfare l’illusione di veridicità ricercata dall’utente che le visualizza.
L’artista sceglie di applicare un blurring, una sfocatura che impedisce il riconoscimento facile e diretto delle figure, fatto che limita la visione e fa sì che l’osservatore non colleghi le forme, che costituiscono il piano dell’espressione, con i concetti corrispondenti sul piano del contenuto.
Il blurring qui si pone come un elemento o punctum [4] che cancella la componente enunciativa della fotografia.
Lo sguardo tra le figure, lo sguardo proveniente dalla fotografia viene cancellato, e con esso l’inclusione dell’osservatore nel testo. Inoltre le sfumature di colori si aggruppano in dei formanti plastici [5] che cancellano la rappresentazione figurativa della fotografia, unendo corpi, gesti e velocità in macchie informi che non appartengono al nostro mondo. La superficie piatta delle fotografie risulta materica, sciolta con pennellate di pittura fresca, come Richter fa in alcuni dei suoi Fotobilder.
Nonostante la fotografia sia stata storicamente pensata come un mezzo di fedele rappresentazione del reale, la serie Nudes costituisce l’esempio perfetto del ragionamento qui messo in atto. Come scrive Foster, “non è possibile un’illusione perfetta e, anche se lo fosse, non corrisponderebbe alle domande del reale, che rimane sempre dietro, oltre, ad attirarci. Succede questo perché il reale non può essere rappresentato; senza dubbio, è definito come tale, come negativo del simbolico, come un incontro mancato, un oggetto perso”. Inoltre, l’iperrealismo nell’arte “è qualcosa di più che un inganno dell’occhio, è un sotterfugio contro il reale, un’arte impegnata non solo a pacificarlo, ma a sigillare il reale dietro le superfici, a imbalsamarlo nelle apparenze” (Foster, 2006 p. 143). D’altro lato Lacan elabora una teoria del trauma proposta in Séminaire, dove si definisce il “traumatico come l’incontro mancato con il reale. In quanto mancato, il reale non può essere rappresentato; può solo essere ripetuto e senza dubbio deve essere ripetuto” (Foster 2006, p.137).
L’azione del blurring compiuta da Ruff nella serie dunque, è un’operazione visiva che rappresenta i nostri incontri mancati col reale. Questi segni che sembrano quasi accidentali sono ripetitivi e automatici, fungono di punctum che squarcia lo schermo e permette al reale di irrompere.

E noi rimaniamo catapultati nel reale, da soli, a guardare tutte queste carezze e incontri mancati.

M.R.D.P

[1] Nel Il visibile e l’invisibile, Merleau-Ponty supera la dicotomia sartriana del rapporto tra soggetto e oggetto  per approdare, attraverso a un “risalimento” fenomenologico, a una condizione dell’essere che è condivisa tra l’uomo e il mondo. Uomo e mondo sono fatti della stessa carne, sono in un rapporto di continuità, dal momento che il soggetto è contemporaneamente oggetto, senziente e sentito, toccante e toccato. In Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty affermerà che è questo fatto a permettere che ogni coscienza sia coscienza percettiva, ovvero che la coscienza riveli continuamente una zona di primaria e originaria condivisione tra la coscienza e il mondo che la circonda.

[2] Nonostante in linguistica l’enunciato si definisca come «il passaggio dalle virtualità della lingua all’enunciato-discorso» visto dalla prospettiva della semiotica generativa esso diventa: «l’enunciazione è l’istanza semiotica responsabile del passaggio dalle strutture semio-narrative alle strutture discorsive». Secondo Algirdas Julien Greimas, l’enunciazione non è pertinente alla teoria semiotica: l’atto concreto di produzione del senso, di per sé, è inattingibile all’analisi perciò si può analizzare il simulacro di quell’enunciazione. La semiotica generativa riprende le tre categorie «io», «qui» e «ora» di Benveniste e per questo si dice che l’enunciatore, nel suo «fare enunciazionale», introduce le categorie paradigmatiche della persona, dello spazio e del tempo, in forma sintagmatica nell’enunciato. Attraverso tali categorie un testo diventa autonomo rispetto all’atto di enunciazione, processo che Greimas definisce débrayage o disinnesco.

[3] La semiotica del visibile e il percorso generativo del senso proposto da Algirdas Greimas analizza i testi tenendo in considerazione che le immagini artistiche planari o tridimensionali hanno un linguaggio figurativo e un linguaggio plastico. Il linguaggio figurativo è quello che consente di riconoscere gli oggetti del mondo riprodotti dall’artista, mentre il linguaggio plastico è quello che permette di ricavare dei significati nell’immagine al di là dell’imitazione della realtà che rappresenta.

[4] “Il punctum è un dettaglio che colpisce e rapisce l’osservatore, è l’effetto prodotto da un evento unico e improvviso che sottrae l’osservatore alla lettura più o meno codificata della foto, mettendolo in contatto immediato con se stesso, suscitando una reazione emotiva irriducibile ad ogni ordine del discorso.” In Intorno all’immagine a cura di Pina De Luca, Mimesis Edizioni, Milano 2008, p. 25.

[5] In seguito all’analisi figurativa si può procedere all’analisi plastica, dentro la quale si individuano tre componenti fondamentali: l’organizzazione topologica o spaziale del quadro, l’organizzazione eidetica e l’organizzazione cromatica. I formanti plastici sono i tratti grafici, zone colorate o linee che evocano un significato all’interno della composizione.

Bibliografia:

Barthes, R 1977, Frammenti di un discorso amoroso, Et Saggi, Einaudi, Torino 2014.

Calabrese, O 2008, Come si legge un’opera d’arte, Mondadori Università, Milano.

Calabrese, O 2012, Postfazione del libro “Leggere l’opera d’arte II” Corrain L (a cura di), Esculapio, Bologna.

Foster, H 2012, Il ritorno del reale, Postmedia Books, Milano.

Lacan, J 1973, Le séminaire, libro XI, Edition du Seuil, Parigi.

Lacan, J 1973, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Contri G (a cura di), Scritti, Einaudi, Torino.

Merleau-Ponty, M 1945, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Parigi trad. A Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965.

Merleau-Ponty, M 1964, Il visibile e l’invisibile, Lefort C (a cura di), trad. A Bonomi, Bompiani, Milano 1993.