Esperienza immersiva, realtà virtuale e arte contemporanea

L’esperienza è uno dei beni di consumo a oggi più diffusi, fuori e dentro il mondo dell’arte. Spesso regaliamo a amici e parenti cofanetti che diano diritto a momenti rilassanti, intime cenette, degustazioni; tutti desideriamo partire per viaggi avventurosi verso località lontane e difficilmente raggiungibili, di cui ci piace dare prova sui social, condividendo selfie e racconti. Noi eravamo lì, in quel tempo e in quello spazio irripetibili: un’esperienza unica. Così la testimonianza del nostro vivere diventa il vivere stesso, attraverso i dispositivi che la tecnologia ci fornisce. Esempio paradigmatico è il caso di Airbnb: a un costo spesso poco accessibile, si possono vivere diverse attività di contorno al viaggio. Da una situazione casalinga in cui preparare le lasagne con una nonna bolognese a un avventuroso campeggio sugli alberi in Costa Rica, ogni momento può diventare irripetibile. Anche la pubblicità non è estranea al meccanismo dell’esperienza: partendo dallo storico esempio di Coca-Cola con il suo celebre “Taste the Feeling”, passando per “Fate l’amore con il sapore” di Müller, fino ad arrivare a “No Martini. No party”, gli spot commerciali sottolineano costantemente l’importanza dell’esserci, del partecipare, di essere protagonisti assieme al prodotto venduto.
Neppure l’esperienza artistica si sottrae a questa logica: visitare una mostra o un museo rappresenta un’azione di consumo da condividere. La mostra experience è diventata così una modalità molto comune, nota al grande pubblico. La Klimt Experience, la Caravaggio Experience o la Van Gogh Experience, per citarne solo alcune, sono state spesso ospitate da importanti istituzioni, ottenendo un grande successo. Mostre di questo tipo si distinguono per la presenza di enormi schermi digitali che riproducono le opere, distorcendone le dimensioni e animando alcuni soggetti. I visitatori, generalmente a fronte di una spesa piuttosto elevata, si ritrovano catapultati in stanze buie, pervase da odori pungenti, musica ad altissimo volume, ricostruzioni 3D dei luoghi cari all’artista. Viene insomma proposta una simulazione multisensoriale grazie alla quale potersi immergere in prima persona non solo nelle opere di Van Gogh, Caravaggio o Klimt, ma anche nel mondo nel quale essi vivevano. Si ritiene, così, di educare all’arte e alla cultura in maniera intrigante e divertente, soddisfacendo contemporaneamente il bisogno di intrattenimento e quello di accrescimento intellettuale del pubblico, con il piacevole effetto collaterale di raggiungere incassi considerevoli.
Nella maggior parte dei casi, però, la conoscenza delle opere, che non sono presenti, è sostituita dal sensazionalismo di un insieme invadente di input sensoriali che confondono il visitatore piuttosto che informarlo in maniera efficace e fruttuosa. Ne risulta un ottundimento generale dei sensi, che non lascia spazio per la riflessione e che tramortisce al pari di un’incessante sessione di shopping tra le stanze di Abercrombie & Fitch e Stradivarius.
Per i più facoltosi, inoltre, l’arte può essere fruita in maniera immersiva e pervasiva anche con modalità esclusive. Ne è un esempio la sede di Hauser & Wirth nella campagna inglese del Somerset. Un antico borgo in rovina è stato ristrutturato per ospitare, oltre alle sale espositive della galleria, un hotel, arredato con opere d’arte e preziosi oggetti d’antiquariato e d’artigianato, un ristorante e un negozio dedicato a arte e editoria di settore. Qui tutto, dalle architetture al menu, fino ai giardini, è un’opera realizzata da un artista; la struttura è anche sede di workshop e conferenze aperte a adulti e bambini. Ciò per cui l’avventore paga sono il benessere e la ricchezza, concreta e figurata, di un certo stile di vita. Insomma: un’esperienza. In un contesto simile, l’opera d’arte assume la funzione di un’amena cornice, capace di farci sentire a nostro agio. Come questo secondo caso mostra chiaramente, il problema non ha a che fare con la tecnologia impiegata nella realizzazione di un ambiente, espositivo o meno, quanto piuttosto con il fatto che ciò che si vende non costituisce un’esperienza estetica di valore, dal momento che non veicola significati. Criticare il modello delle mostre o degli eventi experience non dovrebbe coincidere con un rifiuto della tecnologia digitale e della realtà virtuale nella produzione artistica.
A ben vedere, infatti, anche la nostra esperienza del mondo è immersiva, siamo completamente circondati dall’ambiente in cui viviamo. Non sono il carattere immersivo e l’attenzione alla dimensione corporea delle mostre experience a rappresentare un male di per sè. Non a caso fin dall’origine della produzione artistica si registrano numerosi tentativi di creare ambienti immersivi, dalle pitture rupestri al cinema in 3D. L’avvento della realtà virtuale ha consentito una forte accelerazione in questo senso: stando alla sua prima definizione, elaborata nel 1989 da Jaron Lanier (2017), la realtà virtuale consiste in un ambiente tridimensionale e interattivo, generato da un computer, in cui il fruitore può immergersi in prima persona. Gli ambienti virtuali immersivi colpiscono per il forte senso di realtà che sono in grado di indurci, grazie all’impiego di caschi o visori, di simulatori o del CAVE, una stanza le cui pareti sono costituite da schermi su cui viene proiettato un ambiente tridimensionale (Riva, Gaggioli 2019). Tale tecnologia, dunque, lavora stimolando l’attenzione percettiva allo spazio virtuale nel quale ci muoviamo e consente l’esplorazione di simulazioni di situazioni possibili che attivino la nostra immaginazione. In filosofia e nell’ampio scenario delle scienze cognitive, molti studi hanno dimostrato che il nostro cervello è un dispositivo biologico di simulazione, che proietta schemi predittivi sull’ambiente in funzione dell’esperienza pregressa, così da valutare possibilità positive e negative generate dagli oggetti e dalle nostre azioni al suo interno (Rizzolatti, Sinigaglia 2006). L’esperienza corporea nell’ambiente ricopre un ruolo fondamentale nella formazione della cognizione e consente l’acquisizione di conoscenze che difficilmente vengono dimenticate (Riva, Gaggioli 2019). Sfruttando meccanismi analoghi a quelli impiegati dalla nostra mente, perciò, la realtà virtuale può portare a un apprendimento a livello percettivo-motorio, che consente di modificare o estendere l’ambito delle nostre credenze sul mondo.
In ultima analisi, la tecnologia digitale può essere fruttuosamente impiegata in maniera creativa e consapevole, per produrre opere non altrimenti realizzabili con altri media. Animare le volute della Notte stellata di Van Gogh, mentre il dipinto si avvicina e si allontana sugli schermi che abbiamo davanti, difficilmente potrà restituire la vera esperienza corporea che le pennellate dell’artista sono in grado di suscitare nel fruitore. In questo modo vanno totalmente perdute le dimensioni del quadro, la qualità del gesto, le tonalità dei colori: si ha qualche difficoltà a definirla una mostra d’arte. In tal senso, è in discussione anche il valore squisitamente informativo e educativo di eventi di questo genere: le opere vengono presentate alla stregua di una carta da parati digitale che impressiona per le sue acrobazie, ma che non richiede, e non consente, di analizzare nel dettaglio i particolari e le caratteristiche dei lavori. Invece di lasciare immaginare un odore o un suono a partire da ciò che vediamo, si riempie la stanza di rumori e di effluvi sensazionali, svolgendo il lavoro al posto del fruitore. L’indifferenza è anche la conseguenza di un soggiorno di lusso come quello organizzato da Hauser & Wirth nel Somerset. L’opera d’arte produce significati che necessitano di attenzione per venire compresi, non si tratta di un oggetto di mobilio qualunque e non sempre è ideato con il solo fine di farci sentire a nostro agio o a divertirci. Abitare o visitare spazi saturi di informazione multimodale non può che stancarci, al punto da non consentire alcun tipo di approfondimento.

Esistono molti esempi virtuosi e innovativi dell’uso della realtà virtuale immersiva, in cui essa consente al fruitore di fare in prima persona un’esperienza altrimenti impossibile.
Di seguito ne riportiamo alcuni:

Il progetto Eyesect, realizzato dal gruppo di artisti, designer e ricercatori The Constitute nel 2013, permette di esperire forme di visione non umana, sperimentando così il proprio ambiente da punti di vista differenti. Su un casco di realtà virtuale, in corrispondenza degli occhi, sono collocate due piccole videocamere che possono essere staccate e puntate in varie direzioni, scardinando così la visione binoculare e stereoscopica tipica dell’essere umano. L’immagine dell’ambiente che ne risulta è completamente diversa da quella cui siamo abituati e impossibile da ottenere solo in funzione della nostra costituzione biologica.

Eyesect, The Constitute, 2013.

L’ormai celebre Carne y Arena del regista Alejandro González Iñárritu, che nel 2017 è stato visitabile anche presso la Fondazione Prada di Milano, cala il visitatore in una simulazione della vicenda, realmente avvenuta, di un gruppo di rifugiati che tentano di passare il confine tra Stati Uniti e Messico. Il corpo del fruitore è stimolato visivamente, a livello sonoro e aptico (il pavimento della stanza in cui si svolge la simulazione, e in cui si cammina scalzi, è cosparso di sabbia). L’informazione sensoriale non è qui fine a se stessa, ma richiede all’individuo un impegno tale per cui questi si sente partecipe degli eventi cui assiste. La condizione incerta degli immigrati, considerati illegali, viene vissuta letteralmente sulla propria pelle, portando a sviluppare profondi livelli di empatia e di comprensione di una situazione a noi estranea, trasportandoci nei panni dell’altro.

Lawrence Lek con Farsight Freeport, presentato all’Hek – Haus der elektronischen Künste – di Basilea, non si limita a creare un ambiente immersivo attraverso installazioni video, video games e proiezioni VR: la Farsight Corporation, start-up tecnologica fondata dall’artista nel 2018, è il committente del progetto architettonico che ha riconvertito lo spazio del deposito doganale d’origine; al suo interno Lek mette in scena una retrospettiva del proprio lavoro nell’anno 2065, ragionando sul dialogo tra umano e tecnologia e sul rapporto tra dimensione reale e virtuale.

Lawrence Lek, Nøtel, 2018. Digital image. Courtesy the artist and Sadie Coles HQ, London.

Nel 2019 Rachel Rossin inaugura Stalking the Trace presso la Zabludowicz Collection di Londra. L’artista presenta una multi-user interaction di The Sky is a Gap, opera del 2017, attraverso la quale investiga e analizza le nozioni di tempo e spazio. In un’epoca in cui l’uomo ha sviluppato un forte desiderio di controllo sul suo presente, l’installazione di Rossin permette di sperimentare la sensazione di comandare passato e futuro. Proiezioni contigue di esplosioni dal mondo domestico, militare e tecnologico prendono il posto delle pareti della galleria. Sincronizzate con suoni ed effetti scenici, vengono modificate nella loro durata e nel loro divenire dai movimenti dei visitatori. Il pubblico segue percorsi prestabiliti e, indossando apparecchi VR, determina la narrazione di tali scene, che costituiscono un rimando visivo al finale del film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni.

Bibliografia

Lanier Jaron, Dawn of the New Everything: A Journey through Virtual Reality, Bodley Head, London, 2017.

Riva Giuseppe e Gaggioli Andrea, Realtà virtuali. Gli aspetti psicologici delle tecnologie simulative e il loro impatto sull’esperienza umana, Giunti, Firenze, 2019.

Rizzolatti Giovanni e Sinigaglia Corrado, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano, 2006.