FROM OUTER SPACE
La condizione attuale, a seguito dell’emergenza sanitaria globale dovuta alla diffusione del COVID-19, ci ha portati inevitabilmente a ripensare e a mettere alla prova i concetti di storia, democrazia, potere, socialità e arte. Le posizioni sono tante e diverse, ma su una cosa si è d’accordo: qualcosa è cambiato, anzi tutto è cambiato; dalla nostra quotidianità al nostro rapporto con lo spazio e la tecnologia, tanto con le persone quanto con le immagini. Costretti all’isolamento abbiamo dovuto ridimensionare la nostra visione, non più aperta a un orizzonte lontano, ma ridotta allo schermo di un monitor. Le interazioni comunemente considerate “reali” che coinvolgono cioè una presenza fisica e comunicativa immediata, sono state inevitabilmente sostituite, per buona parte, dall’immagine digitale e dalle sue potenzialità operative. Nei primi anni Duemila W.J.T. Mitchell annuncia il pictorial turn, un fenomeno da lui definito vera e propria riscoperta post linguistica e post semiotica dell’immagine intesa come interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività. Momento di svolta in cui rivela la nuova possibilità delle immagini di assumere una propria autonomia e capacità di essere luogo dei desideri. Le immagini che ci ritroviamo di fronte sono ormai più che agenti attivi capaci di desiderare, di riprodursi e di esercitare potere alla stregua dell’uomo: diventano ogni giorno di più vero e proprio strumento di costruzione dell’Io, di pari passo con ciò che lo circonda. Lo stesso spazio, domestico, cittadino o urbano, ha assunto una valenza del tutto nuova grazie ai processi immaginativi stimolati dalla riproduzione per immagini. Durante una conversazione sulla piattaforma di Zoom, per fare un esempio, l’immagine ci offre accesso diretto a piccole e inesplorate porzioni architettoniche. Percepiamo l’interno di una stanza, la struttura di una terrazza o di un paesaggio circostante, delle sezioni, degli spunti tradotti in immagine. A partire da queste informazioni iniziamo a ricostruire nella nostra mente degli ambienti, in cui l’architettura fisica e reale è percepita diversamente, influenzata dal flusso della visione e dalla percezione individuale. Tornano attuali le definizioni di eterotopia riportate da Michel Foucault nelle conferenze radiofoniche del 7 e 21 dicembre 1966 che riferiscono una consapevolezza storico-sociale applicabile ancora oggi, cinquantaquattro anni dopo. La regola generale dell’eterotopia – “giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili” (Foucault 1966) – può essere riletta non più solo considerando lo spazio architettonico, o meglio urbanistico, ma anche in relazione a quello che ormai è diventato il nostro spazio quotidiano: il digitale. Strettamente collegate al concetto di utopia, come luoghi non esistenti e irraggiungibili, le eterotopie foucaultiane descrivono invece spazi reali, di interazione, in cui rapporti e relazioni vengono neutralizzati o ribaltati. Le eterotopie sono spazi sociali, progettati all’interno del tessuto urbano in cui convivono elementi e situazioni apparentemente inconciliabili. Le considerazioni e gli studi di Foucault sull’esistenza e l’utilizzo di questi spazi ibridi derivano da una ricerca di natura teorica, mentre le riflessioni dell’architetto Rem Koolhaas sono materiali e si riferiscono a specifici progetti architettonici. Si affianca al concetto di eterotopia la definizione concreta e reale di Junkspace (letteralmente “spazio spazzatura”), definito da Koolhaas come il residuo che l’umanità lascia sul pianeta (Koolhaas 2006). Si tratta per l’architettura di una dimensione stravolgente, che si commistiona con le complessità della struttura socio-culturale della contemporaneità. Privo di progettualità, il Junkspace è uno spazio caratterizzato da una pluralità architettonica che mette in discussione i dettami legati alle relazioni sociali appartenenti al luogo. L’incertezza nell’orientamento data dall’intersezione con geografie e temporalità diverse, fino a quel momento indirizzate dall’architettura, conferiscono al Junkspace la capacità di creare relazioni tra gli spazi e al contempo sovvertirle