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X-POST ha dunque individuato nell'immagine lo strumento operativo che consente a vario titolo la manipolazione dell'ambiente. L'immagine ha sempre avuto una caratteristica agentiva fin dalle sue origini (Hoel 2018) perché in grado su diversi piani di esercitare un effetto sul mondo. Quelle digitali, caratteristiche del contemporaneo, sono immagini a maggior ragione operative, perché, come sosteneva l'artista e teorico Harun Farocki nel 2004, 'non rappresentano un oggetto, ma piuttosto fanno parte di un processo'. In Farocki questa espressione si riferisce esclusivamente alle immagini generate dalle macchine per le macchine, come per esempio quelle non prodotte per l'occhio umano e utilizzate dalle smart bomb per identificare il bersaglio. Il termine è oggi passato a indicare il più vasto ambito delle immagini che nascono dal nostro rapporto con le tecnologie, quali fotografie e video digitali, Realtà Aumentata, Realtà Virtuale, etc. Si tratta in tutti i casi di immagini che hanno obiettivi concreti e realizzabili, legate a processi che generano soggetti e identità collettive e che collegano individui, pratiche e media (Hoel 2018). Già nel 2001 autori come Manovich si riferivano alla computer age come un sistema di strategie cognitive - si pensi al copia-incolla, alla ricerca o al filtro - ampiamente utilizzate al di fuori del dispositivo tecnico, nell'ambito della cultura in senso lato. Con l'avanzamento tecnologico, le proprietà dei dispositivi contemporanei permettono un'ulteriore possibilità di tele-azione, intesa come 'esempio di tecnologie della rappresentazione utilizzate per permettere un'azione, che significa consentire all'utente di manipolare la realtà attraverso rappresentazioni visive' (Manovich 2001, p. 165).
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ARKANIAN SHENRON

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Con Arkanian Shenron Luca Pozzi mette in evidenza la biodiversità dei fenomeni fisici al di là del concetto di materia sensibile: sottolinea l’esistenza, nello spazio e nel tempo, di correlazioni a distanza organizzate in una trama relazionale iperconnessa, in grado di collegare eventi provenienti da molteplici dimensioni. L’opera indaga la natura del tempo e tenta di decodificare messaggi provenienti dal passato per prevedere il futuro dell’Universo, presentandosi come un esemplare di animismo tecnologico che vive contemporaneamente su differenti piattaforme macroscopiche.
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X-POST ha dunque individuato nell'immagine lo strumento operativo che consente a vario titolo la manipolazione dell'ambiente. L'immagine ha sempre avuto una caratteristica agentiva fin dalle sue origini (Hoel 2018) perché in grado su diversi piani di esercitare un effetto sul mondo. Quelle digitali, caratteristiche del contemporaneo, sono immagini a maggior ragione operative, perché, come sosteneva l'artista e teorico Harun Farocki nel 2004, 'non rappresentano un oggetto, ma piuttosto fanno parte di un processo'. In Farocki questa espressione si riferisce esclusivamente alle immagini generate dalle macchine per le macchine, come per esempio quelle non prodotte per l'occhio umano e utilizzate dalle smart bomb per identificare il bersaglio. Il termine è oggi passato a indicare il più vasto ambito delle immagini che nascono dal nostro rapporto con le tecnologie, quali fotografie e video digitali, Realtà Aumentata, Realtà Virtuale, etc. Si tratta in tutti i casi di immagini che hanno obiettivi concreti e realizzabili, legate a processi che generano soggetti e identità collettive e che collegano individui, pratiche e media (Hoel 2018). Già nel 2001 autori come Manovich si riferivano alla computer age come un sistema di strategie cognitive - si pensi al copia-incolla, alla ricerca o al filtro - ampiamente utilizzate al di fuori del dispositivo tecnico, nell'ambito della cultura in senso lato. Con l'avanzamento tecnologico, le proprietà dei dispositivi contemporanei permettono un'ulteriore possibilità di tele-azione, intesa come 'esempio di tecnologie della rappresentazione utilizzate per permettere un'azione, che significa consentire all'utente di manipolare la realtà attraverso rappresentazioni visive' (Manovich 2001, p. 165).
DIDASCALIA
ARKANIAN SHENRON. BROADCASTING FROM COSMIC RAYS

Con Arkanian Shenron Luca Pozzi mette in evidenza la biodiversità dei fenomeni fisici al di là del concetto di materia sensibile: sottolinea l’esistenza, nello spazio e nel tempo, di correlazioni a distanza organizzate in una trama relazionale iperconnessa, in grado di collegare eventi provenienti da molteplici dimensioni. L’opera indaga la natura del tempo e tenta di decodificare messaggi provenienti dal passato per prevedere il futuro dell’Universo, presentandosi come un esemplare di animismo tecnologico che vive contemporaneamente su differenti piattaforme macroscopiche.

Arkanian Shenron è un progetto composto da una scultura in bronzo, ispirata alla figura del drago Shenron del manga Dragon Ball. La scultura, attraverso un rilevatore di particelle dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) connesso a una rudimentale intelligenza artificiale, percepisce il passaggio di muoni e li converte in messaggi Twitter. Presentata per il progetto “Una Boccata d’Arte”, l’opera è collocata a Mezzano (TN), in un cunicolo montano che approvvigiona d’acqua il paese. Per X-POST, Arkanian Shenron trova una nuova dimensione: una pagina web (www.arkanianshenron.com), centro di ricezione ed elaborazione di trasmissioni cosmiche.

In questa sede il drago restituisce in parola le criptiche trasmissioni dell’universo siderale. I messaggi derivano da testi di filosofia con cui l’IA è stata nutrita, ampliandone i confini e il significato.

Da febbraio 2020 Arkanian Shenron ha condiviso decine di migliaia di tweet, tracce linguistiche dell’apparentemente invisibile correlazione tra realtà differenti. Sulle pagine di X-POST, Luca Pozzi raccoglie il flusso oracolare delle prime trasmissioni di Arkanian, che costituiscono l’incipit del Libro della Genesi di Arkanian Shenron. Luca Pozzi (1983) è artista e mediatore interdisciplinare.

Ispirato dai mondi dell’arte, della fisica, della cosmologia multi-messaggera e dell’informatica, dopo la Laurea in Pittura e le specializzazioni in Computer Graphics e Sistemi informatici, collabora con visionarie comunità scientifiche tra cui la Loop Quantum Gravity (PI), il Compact Muon Solenoid (CERN) e il Fermi Large Area Telescope (INFN, NASA).

Studiando gravità quantistica, cosmologia e fisica delle particelle, la ricerca teorica è convertita in una serie di installazioni ibride caratterizzate da sculture magnetiche, oggetti in levitazione, esperienze VR / AR e un uso performativo della fotografia basata su una straniante sensazione di tempo sospeso e multi-dimensionalità.

Il suo lavoro è stato esposto presso importanti musei e gallerie in Italia e all’estero e le sue opere sono parte di prestigiose collezioni pubbliche e private tra cui il Mart di Rovereto, il Mambo di Bologna, il MEF di Torino e L’Archive of Spatial Aesthetics and Praxis di New York. E’ conosciuto per la serie fotografica “Supersymmetric Partner”, che documenta i suoi salti di fronte alle pitture rinascimentali di Paolo Veronese e per l’utilizzo di tecnologie a levitazione elettromagnetica in opere dal sapore futuristico come “Schroedinger’s cat through Piero della Francesca influence” (Museo Marino Marini, 2010), “9 Churches 9 Columns” (Moscow Biennale, 2011) e “The Star Platform” (Marrakech Biennale, 2012). Nel 2013 mette a punto il dispositivo di disegno di luce da remoto “Oracle” (DLD, Haus der Kunst, Monaco), del 2015 é la mostra “The Messengers of Gravity” (MEF, Torino), mentre del 2017 il progetto “Blazing Quasi-Stellar Object” al CERN di Ginevra. Nello stesso anno partecipa a “Documenta 14” come parte del collettivo “Eternal Internet Brotherhood” (Kassel).

X-POST

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AMATEURS OF THE WORLD, UNITE!

Il video amatoriale non è un documentario, non pretende di dire o ricostruire il vero. L’amatore è pronto davanti all’imprevisto, è posizionato perché sceglie di non rimanere indifferente. Non è un giornalista, non è neutrale né oggettivo, lui è lì e in quel momento. Vivo e acuto è lo sguardo, sgranata è l’immagine perché a essere risoluti sono il gesto e l’azione, a scapito della qualità. L’amatore è un martire della causa, la sua o quella di un altro, perché in ultimo la sua causa è farsi portavoce. Producendo immagini ovunque e in qualunque momento, l’amatore contemporaneo tiene traccia del mondo. Supera l’automazione, ma è tutt’uno con la macchina, è il suo occhio e l’occhio meccanico. Il cellulare è la protesi che lo lega al resto del mondo, in una sola rete che lo ha trasformato in un soggetto collettivo, che percepisce, pensa e reagisce (Andén-Papadopoulos 2013). Insieme abbiamo visto Neda Agha-Soltan morire in una strada di Teheran e George Floyd soffocare su un marciapiede di Minneapolis. Da sempre “per ‘sapere’ e per ‘ricordare’ occorre immaginare” (Guerri, Parisi 2013, p. 177), è l’immagine che crea l’evento e lo affida alla comunità. Senza, il nostro è un pensiero cieco. Non erano fotografi i Sonderkommando che riuscirono a strappare le poche immagini che possediamo dello sterminio avvenuto nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Non erano storici né cronisti; le fotografie che hanno prodotto sono sfocate, imperfette, oblique e per questo tanto più preziose, perché riferiscono della precarietà della loro posizione e della pericolosità del loro gesto. Ci hanno consentito di dare un’immagine a ciò che sembrava impossibile immaginare, la vita valeva per loro quanto la testimonianza che hanno garantito. L’amatore capisce la potenza viva dell’immagine, del video e conosce la grammatica elementare del montaggio. L’amatore del passato il più delle volte non aveva la possibilità di condividere direttamente il proprio girato, gli amatori di oggi vogliono il film collettivo, richiedono l’interazione. READ ALL
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CLOSE ADD

Negli ultimi mesi, segnati dal lockdown e dal distanziamento sociale, il mondo dell’arte contemporanea ha visto confluire progetti, mostre e opere sul web. Da subito si è potuta osservare sia una migrazione di progetti dallo spazio reale a quello virtuale, sia la nascita di nuovi contenuti pensati ad hoc per le piattaforme online. In entrambi i casi sono stati adottati una varietà di format che hanno spaziato dal virtual tour alla performance in diretta, dalla mostra online al podcast o all’intervista in IGTV, canali già conosciuti ed esplorati ben prima che l’emergenza sanitaria incentivasse una digitalizzazione dei contenuti. Il cambiamento sostanziale sta nel fatto che fino a pochi mesi fa la presentazione di un prodotto artistico-culturale nella dimensione del web non escludeva la possibilità di una fruizione in presenza. Alla luce degli ultimi rivolgimenti, è necessario quindi interrogarsi sullo statuto delle immagini che circolano online, considerando anche che opere prodotte con specifici tipi di media hanno dimostrato di essere più assimilabili dalle piattaforme digitali rispetto ad altre. Per esempio, immagini in movimento – film e opere di videoarte – hanno subito un cambio di paradigma radicale nella loro presentazione. Tutto ciò non è naturalmente una novità; sono ormai storicizzate esperienze come Ubuweb, tra i primi archivi accessibili al pubblico per la videoarte, fondato nel 1996 dal poeta e artista concettuale Kenneth Goldsmith. Al contrario di piattaforme open source, Ubu ha da subito seguito un indirizzo curatoriale ben preciso. Goldsmith afferma che Ubu è “come un servizio alla comunità – è un modo per ripagare, è un modo per attirare l’attenzione sul lavoro che normalmente non rientra nei modelli economici tradizionali” [1]. Affrontando un punto fondamentale della distribuzione delle opere video online, sottolinea in diverse occasioni come si tratti di una piattaforma nata per presentare opere che non hanno alcun valore economico, ma storicamente inestimabili. Si può dichiarare che il mercato delle opere di videoarte, fino a qualche mese fa, abbia risposto alla tradizionale “logica della scarsità” secondo cui l’opera più è rara e più è preziosa. Ubu è emblematico del modo in cui i canali di presentazione slegati dal mercato hanno tentato di rappresentare un’alternativa, spingendo verso una democratizzazione e diffusione dei contenuti. Le contingenze dell’emergenza sanitaria hanno portato attori che fino ad ora si erano astenuti dal pubblicare opere video online a ripensare al ruolo del web. L’intenzione di rendere accessibili mostre e opere da casa ha spinto anche le gallerie alla ricerca di nuovi compromessi, nella maggior parte dei casi confluiti nella pubblicazione temporanea dei lavori, ibrido tra lo streaming e l’evento. Dal momento che l’emergenza sanitaria globale non si è ancora conclusa, viene da chiedersi cosa accadrà risolta la crisi. Una volta normalizzata la situazione, l’affollamento di immagini online potrebbe rimanere un ricordo legato alla quarantena, oppure il processo potrebbe continuare con lo sviluppo di nuove piattaforme. Il materiale prodotto in questo contesto potrebbe assumere col tempo lo status di documentazione di un determinato periodo invece che essere considerato un’opera d’arte. Infine lo streaming, ampiamente utilizzato nel corso degli ultimi mesi, potrebbe essere stato completamente sdoganato o solo accettato temporaneamente come compromesso. READ ALL
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ALGORITMI CRITICI

Filtrata attraverso gli schermi e moltiplicata infinite volte, l’immagine ha oggi uno statuto problematico, se non fortemente deteriorato. L’enorme quantità di immagini in circolazione, in particolare digitali, ha ridotto il valore del singolo elemento a favore di un continuo potenziamento della massa. L’immagine acquisisce infatti forza e potenza praticamente illimitate quando fa parte di un montaggio di molteplici rappresentazioni. Per riguadagnare un’identità autonoma, smarcandosi dalla corrente di cui fanno parte, le immagini cercano engagement. L’esempio più comune di questa pratica è generare scandalo attraverso le fotografie: la reazione emotiva di chi guarda dà risalto mediatico all’informazione permettendogli di esistere in autonomia. Tramite questo processo di affermazione, l’immagine coinvolge l’uomo come mezzo per diffondersi in modo virale. Tale metodologia agentiva mette in chiaro una delle possibili accezioni attribuibili all’operatività dell’immagine e costituisce un’evoluzione della definizione elaborata da Farocki nel 2004. Nella visione di Farocki l’immagine operativa è prodotto delle macchine per le macchine, un dialogo tra due meccanismi senza intrusione umana, come avviene nel caso delle comunicazioni tra aerei militari (cfr.Farocki 2004). L’immagine virale è operativa poiché è in grado di sfruttare l’uomo, ingranaggio inconsapevole e coinvolto emotivamente, a vantaggio della sua diffusione. L’immagine digitale nasce in relazione a meccaniche computazionali, che rendono la macchina capace di vedere (Arcagni 2018). Se l’idea di un’intelligenza artificiale capace di vedere è parte di un discorso sviluppato a partire dagli anni ‘60, oggi non è più una telecamera a fungere da occhio. Gli algoritmi di cui è costituita l’AI diventano occhi sempre più complessi (com’è il caso di machine e deep learning) attraverso cui le immagini sono smembrate e categorizzate READ ALL
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FROM OUTER SPACE

La condizione attuale, a seguito dell’emergenza sanitaria globale dovuta alla diffusione del COVID-19, ci ha portati inevitabilmente a ripensare e a mettere alla prova i concetti di storia, democrazia, potere, socialità e arte. Le posizioni sono tante e diverse, ma su una cosa si è d’accordo: qualcosa è cambiato, anzi tutto è cambiato; dalla nostra quotidianità al nostro rapporto con lo spazio e la tecnologia, tanto con le persone quanto con le immagini. Costretti all’isolamento abbiamo dovuto ridimensionare la nostra visione, non più aperta a un orizzonte lontano, ma ridotta allo schermo di un monitor. Le interazioni comunemente considerate “reali” che coinvolgono cioè una presenza fisica e comunicativa immediata, sono state inevitabilmente sostituite, per buona parte, dall’immagine digitale e dalle sue potenzialità operative. Nei primi anni Duemila W.J.T. Mitchell annuncia il pictorial turn, un fenomeno da lui definito vera e propria riscoperta post linguistica e post semiotica dell’immagine intesa come interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività. Momento di svolta in cui rivela la nuova possibilità delle immagini di assumere una propria autonomia e capacità di essere luogo dei desideri. Le immagini che ci ritroviamo di fronte sono ormai più che agenti attivi capaci di desiderare, di riprodursi e di esercitare potere alla stregua dell’uomo: diventano ogni giorno di più vero e proprio strumento di costruzione dell’Io, di pari passo con ciò che lo circonda. Lo stesso spazio, domestico, cittadino o urbano, ha assunto una valenza del tutto nuova grazie ai processi immaginativi stimolati dalla riproduzione per immagini. Durante una conversazione sulla piattaforma di Zoom, per fare un esempio, l’immagine ci offre accesso diretto a piccole e inesplorate porzioni architettoniche. Percepiamo l’interno di una stanza, la struttura di una terrazza o di un paesaggio circostante, delle sezioni, degli spunti tradotti in immagine. A partire da queste informazioni iniziamo a ricostruire nella nostra mente degli ambienti, in cui l’architettura fisica e reale è percepita diversamente, influenzata dal flusso della visione e dalla percezione individuale. Tornano attuali le definizioni di eterotopia riportate da Michel Foucault nelle conferenze radiofoniche del 7 e 21 dicembre 1966 che riferiscono una consapevolezza storico-sociale applicabile ancora oggi, cinquantaquattro anni dopo. La regola generale dell’eterotopia – “giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili” (Foucault 1966) – può essere riletta non più solo considerando lo spazio architettonico, o meglio urbanistico, ma anche in relazione a quello che ormai è diventato il nostro spazio quotidiano: il digitale. Strettamente collegate al concetto di utopia, come luoghi non esistenti e irraggiungibili, le eterotopie foucaultiane descrivono invece spazi reali, di interazione, in cui rapporti e relazioni vengono neutralizzati o ribaltati. Le eterotopie sono spazi sociali, progettati all’interno del tessuto urbano in cui convivono elementi e situazioni apparentemente inconciliabili. Le considerazioni e gli studi di Foucault sull’esistenza e l’utilizzo di questi spazi ibridi derivano da una ricerca di natura teorica, mentre le riflessioni dell’architetto Rem Koolhaas sono materiali e si riferiscono a specifici progetti architettonici. Si affianca al concetto di eterotopia la definizione concreta e reale di Junkspace (letteralmente “spazio spazzatura”), definito da Koolhaas come il residuo che l’umanità lascia sul pianeta (Koolhaas 2006). Si tratta per l’architettura di una dimensione stravolgente, che si commistiona con le complessità della struttura socio-culturale della contemporaneità. Privo di progettualità, il Junkspace è uno spazio caratterizzato da una pluralità architettonica che mette in discussione i dettami legati alle relazioni sociali appartenenti al luogo. L’incertezza nell’orientamento data dall’intersezione con geografie e temporalità diverse, fino a quel momento indirizzate dall’architettura, conferiscono al Junkspace la capacità di creare relazioni tra gli spazi e al contempo sovvertirle. READ ALL
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POSTAMI DA MORTA

Verso la fine degli anni novanta il corpo si immette nel circuito di Internet attraverso un reticolo di immagini mai viste prima, dando inizio al macabro online con i cosiddetti shocking sites. Siti come Rotten.com, Ogrish.com, Bestgore, spalancano la porta dell’inferno umano: i loro contenuti sono raccapriccianti, disturbanti e si configurano come la prima risorsa di foto e video di incidenti, omicidi, esecuzioni e molto altro. Rotten.com, aperto nel 1996 e chiuso nel 2017, è stato definito in un articolo pubblicato da Salon nel 2001 come “il lato più oscuro, nascosto e sordido della natura umana”. Il suo fine era far vivere allo spettatore un’esperienza che non si esaurisse in un’unica e fugace visita ma in un orrore continuo, vissuto molteplici volte in un loop di terribile dipendenza ed eccitazione. Oggi le immagini violente, gore [1] e di tortura sono ormai un semplice materiale di scambio pubblico e informale reperibile dai social network ai thread di Reddit [2] ed è, pressoché impossibile, scindere la dicotomia tra lo sfruttamento di tali contenuti come informazione o come strumento di intrattenimento. Alle volte queste due modalità mediatiche finiscono per coincidere generando una realtà ibrida di perversione, disinformazione e controllo politico. La debolezza del corpo umano, come la ferocia omicida di una coscienza non più umana, diventano statuti di un nuovo linguaggio e finestre di una realtà che è plasmata e si plasma sulla morte. Si registra a tal proposito un aumento di condivisione di materiale violento proprio a partire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre [3], periodo in cui la frequenza di immagini di tortura sia in televisione che su Internet ha iniziato a propagarsi considerevolmente, alimentando così uno specifico immaginario collettivo. Nella contemporaneità “oculocentrica”, citando la teoria della filosofa Gillian Rose (Rose 2001), l’immagine acquista un’importanza tale all’interno del panorama politico-culturale che la sua profusione arriva a trasformare il corpo sociale nelle sue forme di relazione e di interazione. La contemporaneità ci propina e presenta un continuum di immagini di tortura prese dal vivo che spesso non testimoniano più l’atto in sé, ma si trasformano in un feticcio di consumo collezionato fra le stratificazioni visuali del quotidiano. Da questa disseminazione online consegue un’incapacità nella comprensione del dolore fisico e della morte e, come nota Alessandro Amaducci, “mancando una cultura della morte, dato che né la religione né la filosofia riescono ad assolvere a questo compito, si cerca l’immagine della morte” (Amaducci 2007, p. 118). Il rischio è di alterare la rappresentazione della tortura a tal punto da favorire un rimosso sociale che contribuisce alla propagazione di una disinformazione generale. Le immagini di sevizie e violenza di vario genere sono così restituite attraverso una tortura arcaica, diversamente ritualizzata attraverso l’influenza della cultura digitale (La Rocca 2009), in cui il corpo viene ripetutamente smembrato: la tortura viene sempre più prodotta per la sua messa online. READ ALL
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KITSCH MONUMENTALITY

Da Michael Jackson a The American Monument: La superstar dei Lakers Kobe Bryant, immortalata in Cina con un monumento davanti alla Guangzhou Academy of Fine Arts, dialoga a distanza con la statua di Shaquille O’Neal in un parco di Pechino. A Zitiste, villaggio a Nord di Belgrado, capeggia la statua alta dieci piedi di Sylvester Stallone nelle vesti di un Rocky, così come succede con Manuela Arcuri a Porto Cesareo. E ancora, statue di celebrità in tutto il mondo: Johnny Depp e Bob Marley in Serbia, Michael Jackson a Londra, John Lennon a Cuba, Bruce Lee in Bosnia, Jean-Claude Van Damme a Bruxelles, Arnold Schwarzenegger in Austria.

Una galleria di immagini che mi ricorda The American Monument (1976), progetto di Lee Friedlander edito da Eakins Press composto da una serie di 213 fotografie che rappresenta alcune statue in relazione allo spazio pubblico circostante, composto perlopiù da edifici architettonici e mute tracce di vita quotidiana. La relazione con il contesto però è dinamica, il monumento statuario include i suoi immediati dintorni. In alcuni casi il soggetto è visivamente incidentale rispetto alla composizione o addirittura parzialmente oscurato. Si tratta di un’enfasi cruciale perché comunica quanto per Friedlander il vero soggetto non sia la statua, ma la relazione dinamica tra le parti, tra il monumento (nella sua apparente permanenza) e la sua posizione, il suo contesto fisico che cambia continuamente per riflettere i valori della comunità. Penso ad esempio alla rappresentazione di Father Duffy, uno dei soggetti della serie, sovrastato da cartelloni e schermi pubblicitari nell’omonima frenetica piazza newyorkese.

Una mappatura di immagini di questo genere, sul finire degli anni settanta, non era impresa semplice: le testimonianze che l’artista ha potuto raccogliere nell’arco di dodici anni, viaggiando da una costa all’altra degli States, sono oggi a portata di click. Dal 1976 anche il panorama sociale si è evoluto e la funzione propagandistica dei monumenti pubblici è stata di recente serio oggetto d’indagine. Le immagini raccolte da Friedlander oggi non possono essere osservate, percepite e situate come una volta.

Pur in un’inesauribile gamma formale e iconografica, nell’opinione comune il monumento è stato considerato nei secoli simbolo di virtù civica e orgoglio patriottico, così come lo spazio pubblico è stato da sempre battagliato e requisito dalle autorità con il fine ultimo di orientare le narrazioni storiche. Eppure, con l’avvento di Google Maps Street View e l’enorme archivio globale di immagini digitali, l’esperienza di Friedlander non può di certo essere la stessa per il viewer contemporaneo. Se l’umorismo e il pathos della statuaria sono rimasti invariati nella loro operatività, la potenza dell’immagine digitale oggi sembra sfidare la rappresentazione fisica equivalente. Silvia Bottani, parlando di kitsch in un’intervista su “Doppiozero”, sostiene che “la proliferazione di voci, di canali e piattaforme, il costante flusso di immagini e informazioni alimentato da blogger, influencer, autori, semplici utenti, genera un magma indifferenziato in cui l’opera è destinata a transitare brevemente e sparire subito dopo, dimenticata” (Bottani 2020). Ma non è proprio così. La recente polemica sulla statuetta della Madonna del presepe di Pontedera che si affaccia sulla piazza principale del paese toscano e raffigura il volto dell’influencer Chiara Ferragni, dovrebbe esserne una controprova (Ansa 2020). Nell’epoca contemporanea bisognerebbe piuttosto chiedersi quali specchi [1], vivi o morti, nutrono attraverso l’immaginario monumentale una narrazione kitsch e narcisistica di individuo e collettività.
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CURATORIAL IMPOSTOR SYNDROME

L’immagine operativa come interfaccia cortesemente offerta agli umani

Con l’espressione ”immagine operativa” Harun Farocki si riferiva inizialmente a immagini che servono scopi tecnico-matematici dettati da obiettivi specifici. Sebbene questa tipologia di immagini sia stata inventata dagli umani, non è pensata per la loro fruizione: non sono immagini che nascono per essere guardate, non hanno una funzione narrativa, non servono ad intrattenere né a informare, non hanno intenti sociali, non sono edificanti, non sono da contemplare e – a essere precisi – non rappresentano neanche un oggetto, avendo il solo scopo di essere un momento all’interno di un processo di scambio di informazioni tra macchine, per le quali il concetto stesso di immagine è fondamentalmente irrilevante.

Per afferrare degli esempi di immagini operative, oggi dobbiamo fare uno sforzo immaginativo non indifferente. Anche coloro che hanno nozioni solo rudimentali sui processi computazionali alla base delle tecnologie informatiche possono intuire come il grado di complessità di tali procedure ecceda oramai la nozione umanizzata di “immagine” . Quelle che, quasi vent’anni fa, Farocki indicava con il nome di “immagini operative”, ora vengono definite tecnicamente come spazi vettoriali multi-dimensionali, in cui vengono iscritti una serie di dati per permettere alla macchina di realizzare il riconoscimento (o la produzione) di pattern ricorsivi – un processo che sta alla base di quello che viene chiamato “apprendimento profondo” della macchina. La traduzione di queste procedure in un’interfaccia visiva è necessaria solo nel caso in cui, in qualsiasi momento di questa conversazione tra macchine, sia necessario l’intervento di una persona umana: “quasi un gesto di cortesia da parte delle macchine verso gli umani” (Pantenburg 2017, p. 49).

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DUE ALLA VOLTA

Alla fine degli anni settanta il dirigente Bruto Saraccini passava da un gruppo d’impresa all’altro appurando la fine dell’utopia industriale a cui aveva pensato di contribuire mediando tra sviluppo e progresso. Qualche anno dopo, in un tempo indefinito tra l’oggi e un possibile futuro, i luoghi in cui lavorava Saraccini, gli ampi spazi urbani con architetture possenti costruite anni addietro dal Megagruppo, sono in stato di abbandono. Quelle infrastrutture di controllo, collassate insieme all’industria come “bene pubblico”, sono oramai degli scheletri inefficienti. Questo tempo immaginato è descritto tra le pagine de Le mosche del capitale, il romanzo di Paolo Volponi che nel 1989 osservava il declino industriale del Paese. Un tempo in cui mentre falliva l’utopia modernista dell’industria si preparava un nuovo ordine politico-economico simile alla distopia sociale in cui siamo immersi in questo momento. Una società capillarmente privatizzata e profittevole, ideologicamente al servizio del capitale e dedita al monoteismo finanziario. Una società dell’ovvio, costruita sulle purghe del TINA (There Is No Alternative) – lo slogan neoliberista battezzato da Margaret Thatcher e recitato da Ronald Reagan – che dispone di una propria ricca metafisica e di un multiforme dispositivo di legittimazione teologico, del tutto diverso dal suo diretto precedente. Ecco, in questo testo proverò a parlare di una delle sue componenti, di qualcosa che a ben vedere va oltre il visibile e che ha a che fare con l’operatività e la temperatura delle immagini. READ ALL
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PERCHE' QUEI FIORI HANNO PERSO IL PROFUMO?

“Una rosa è una rosa è una rosa.” Spiegando questo suo celebre verso, Gertrude Stein ha dichiarato: “penso che in quella frase la rosa sia rossa per la prima volta in cent’anni di poesia inglese” (Stein 1947, p. VI).. Stein ha ragione. “Una rosa” è un’evocazione, un pezzo di linguaggio che richiama alla memoria un oggetto. “È una rosa” è una definizione che la conferma e le dà colore. La sua ripetizione, una o più volte, non è puramente ridondante: pur essendo lo stesso significante, pur appartenendo allo stesso codice descrittivo (linguaggio veribale, lingua inglese), aggiunge “rosità” alla rosa. L’evocazione si definisce, acquista pixel e saturazione. Verbale o visuale che sia, il linguaggio non è la cosa che rappresenta, ma può evocarla in maniera più o meno convincente.

Penso alla rosa di Stein guardando Bloom (2020), la serie di fotografie di piante in fiore prodotte da Trevor Paglen durante il lockdown. Come la frase di Stein, queste immagini sono ridondanti, ma diversamente da essa, qui la ridondanza è ottenuta sovrapponendo tre codici descrittivi differenti. Il primo è quello di una fotografia di altissima qualità, scattata in piena luce, avendo l’accortezza di mantenere a fuoco ogni piano e dettaglio. Il secondo è una tecnica di interpretazione algoritmica dell’immagine chiamata “deep saliency”, in cui il sistema di intelligenza artificiale, allenato su training set di migliaia di immagini, “usa degli algoritmi per capire cosa stia accadendo nell’immagine, per desumere quali oggetti ci siano in essa, per individuare i diversi materiali presenti e la relazione fra di loro” (Khong, Paglen 2020). Una volta che le reti neurali hanno “compreso”, o “visto”, l’immagine, l’artista traduce questa comprensione in filtri colorati che la rendono percepibile all’occhio umano.

Il terzo codice descrittivo è quello messo a disposizione dalla tecnica di stampa. Le foto della serie Bloom sono stampate a sublimazione di colore (dye sublimation print), una tecnica che incorpora l’immagine nel supporto, consentendo un’alta risoluzione e colori vividi e vibranti.

Tutti e tre questi codici appartengono al regno di quelle che il filosofo Vilém Flusser ha chiamato “immagini tecniche” (Flusser 1985 [2009]): il dispositivo fotografico cattura il “mosaico di elementi puntuali” che costituisce il reale e lo computa in una nuova superficie; l’intelligenza artificiale analizza e comprende questa superficie, modificandola attraverso il proprio sguardo; il processo di stampa, infine, la traduce in una nuova immagine continua, in un nuovo elemento della realtà.

Tutti e tre i codici parlano all’occhio dell’uomo, sono destinati alla visione umana, ma gli dicono qualcosa di diverso. L’immagine fotografica ci racconta l’assurda primavera del 2020, in cui il mondo si è fermato a causa di una pandemia globale, in cui l’umanità si è chiusa in casa per sfuggire a un pericolo invisibile, e la natura ha gioito per un’aria finalmente più pulita. Racconta di un momento in cui, come spiega Paglen, c’è stato “un grande cambiamento nel modo in cui le immagini significano”, e nella nostra relazione col mondo: “hai paura del mondo materiale - come se tutta la sua infrastruttura fosse contro di te, in qualche modo. Ma c’è calma. Senti suoni che non hai mai sentito prima. La natura fiorisce in primavera - è folle, quegli odori e quei colori, in parte perché non puoi uscire molto. Tutte quelle esperienze sensoriali diventano molto più intense” (Khong 2020) quando sei costretto a stare alla finestra. L’immagine fotografica racconta della crudele indifferenza della natura ai dolori dell'essere umano, della fragilità della bellezza e della vita: temi ricorrenti nella storia della pittura di genere (paesaggio e natura morta), in cui Paglen coscientemente si inserisce .

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UNO SGUARDO OLTRE

Nell’ormai (relativamente) lontano 2014, il teorico dei media e saggista Lev Manovich , insieme al gruppo di ricerca del Cultural Analytics Lab da lui fondato e diretto presso il California Institute for Telecommunication and Information, rilascia il progetto The Exceptional and the Everyday: 144 hours in Kyiv (2014), una stupefacente analisi visiva dell’uso di Instagram durante una protesta civile. Dal 17 al 22 febbraio 2014, infatti, l’Ucraina affronta una delle più importanti e violente rivoluzioni della sua travagliata storia - sull’onda delle durissime manifestazioni di piazza dell’inverno precedente, conosciute con il termine Euromaidan - culminata con la cacciata dell’allora presidente filorusso Viktor Janukovyč, la restaurazione della costituzione come era dopo la rivoluzione arancione del 2004, il rilascio della prigioniera politica Julija Tymošenko e l’abolizione della "legge sulle lingue regionali", con conseguente nuova legge decretante l'ucraino unica lingua di Stato. READ ALL
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