LOOK AT ME – INTERVISTA CON michele rizzo

Michele Rizzo (1984) è un artista italiano che lavora tra l’Italia e l’Olanda dove ha conseguito la sua formazione in coreografia e arti visive. Negli ultimi anni ha prodotto una serie di opere per teatri e spazi espositivi, che si cimentano nella traduzione estetica di elementi tratti dalla cultura del clubbing. Nel 2018 Rizzo presenta HIGHER xtn. (2018), allo Stedelijk Museum di Amsterdam, che ha accolto l’opera nella sua collezione permanente. HIGHER xtn. è stata ampiamente presentato in Europa: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino), Zachęta National Gallery of Art (Varsavia), V-A-C Foundation (Venezia), 3HD Festival (Berlino), Spazio Maiocchi e Miart (Milano), Enter Art Fair (Copenaghen), La Casa Encendida (Madrid). Nel 2020 Rizzo porta avanti il ​​suo linguaggio coreografico e implementa in esso il medium della scultura, producendo Rest (2020), presentato alla Quadriennale d’Arte di Roma a Roma. L’opera  fa parte della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino.  Nel 2021 Rizzo produce la sua ultima performance Reaching (2021) al KW Institute for Contemporary Art di Berlino in collaborazione con Julia Stoschek Collection. Nello stesso anno esordisce nel mezzo del video, producendo e dirigendo il film Rest (2021). Il film è stato commissionato ed acquisito dallo Stedelijk Museum di Amsterdam. Dal 2020 Rizzo collabora nel mondo della moda, operando come coreografo e movement director in brand come MARNI, Off-White e Magliano. Accanto alla sua carriera di artista Rizzo si impegna regolarmente come docente e tutor presso varie istituti di formazione quali,  SNDO School for New Dance Development ad Amsterdam, HEAD University of Art and Design di Ginevra e università di Roma TRE.

Michele Rizzo, If eyes are turned inwards, if dance is for oneself, I’ll let you watch me take off my armor. And yet my fight is never over, my dance is sharper than a knife. Performance, 15’’, 2022. Performance by Nermah Khair, soundtrack by Dafne, styling Michele Tonini. ph. Lorenzo Lanzo, IIF, Lomography.

TBD: Il rapporto con la cosiddetta club culture è centrale nel tuo lavoro. Il club o altre architetture simili promuovono uno spazio separato dal mondo esterno, uno spazio non illuminato e associato al piacere più che al lavoro. In Club Cultures l’antropologa Silvia Rief spiega come il clubbing “assuma forme di trasgressione positiva in spazi liminali dove ‘altre’ forme di esistenza, attività e vita possono essere esplorate”. Un’esplorazione che avviene, soprattutto, attraverso forme di ritualità spontanee basate sul corpo in movimento e la danza. La performance, come linguaggio specifico, sembra fare in qualche modo la stessa cosa, nel tuo lavoro come leggi questa relazione? 

M.R.: Una performance è una costruzione, un mondo artificiale definito da parametri arbitrari ma estremamente codificati, rispondenti a una coerenza interna. È una dimensione alternativa in cui l3 performer sono chiamat3 a vivere delle situazioni. Mi trovo spesso a chiedere alle persone con cui lavoro di calarsi completamente in queste nuove realtà e di muoversi all’interno di esse a partire da stati di necessità, così che gesti e azioni siano sempre scollegati da una modalità di rappresentazione, in favore di un vissuto reale delle situazioni. Una performance è pertanto uno spazio liminale, evocato in uno spazio fisico, e a cui si giunge (sia come performer che come pubblico) attraverso un percorso complesso e pieno di insidie a volte. All’interno di essa ci si deve muovere con cautela, in quanto la realtà altra che evoca è fragile, e può sgretolarsi in un istante. A volte si riesce, a volte no. Mille parametri concorrono a questo risultato, un’alchimia che è spesso impossibile da controllare a pieno. Credo che sia proprio questa fragilità a rendere la performance un mezzo estremamente potente. Quando ho creato i miei lavori ispirati all’esperienza del club non ho potuto fare a meno di notare che i due mondi che tentavo di coniugare avessero questi aspetti in comune. 

TBD: Il setting delle tue performance sembra spesso includere una certa orizzontalità e permeazione fra l’azione coreografata, la presenza del pubblico e il luogo dell’azione. Chi è per te il pubblico delle tue azioni? È un semplice gruppo di osservatori o qualcosa di più? Come ti rapporti ai suoi sguardi e ai suoi corpi?

M.R.: Ho sempre pensato che il pubblico dei miei lavori sia in prima istanza io stesso e l3 mi3 performer. Durante le prove, la performance si manifesta ai nostri occhi e ci chiede di essere compresa, ma così facendo aiuta noi stess3 a comprenderci. Noi stess3 quindi ci poniamo ad essa nell’attitudine di osservare. Osservare i nostri corpi, le relazioni tra di essi, il nostro modo di occupare lo spazio e il tempo. È così che pian piano riusciamo a costruirla. Osservare è un’azione potentissima, in quanto conferisce legittimità di esistenza a ciò su cui lo sguardo si posa. Per questo l’azione del guardare non è mai disgiunta da una certa responsabilità. In questo senso il pubblico di una performance è imprescindibile, il suo sguardo dà alla performance stessa la possibilità di effettivamente avvenire o non. 

TBD: Il tuo lavoro coinvolge altri media oltre la performance. In opere come REST, per La Quadriennale di Roma nel 2020, hai utilizzato la scultura come parte di un’azione rituale e come sua traccia materializzata. In che modo ti approcci alle tracce delle tue performance, alla loro documentazione e restituzione? 

M.R.: Ho creato le sculture di REST in piena pandemia, in un momento in cui non era possibile lavorare con altri corpi. È stato un gesto istintivo quello di voler trasmettere la mia pratica coreografica all’interno della materia. Seppure la scultura sia un mezzo che conosco poco, in quel lavoro aveva un valore prettamente performativo, espresso per l’appunto in seguito alla necessità di costruire io stesso i corpi che potessero comunicare l’idea di riposo a cui il lavoro si riferisce. La documentazione delle performance invece necessita di un discorso più complesso, in quanto almeno nel caso del mio lavoro mi risulta spesso molto difficile riuscire a catturarne l’essenza attraverso i supporti video-fotografici. Nel 2019 ad esempio, lo Stedelijk museum di Amsterdam ha comprato il mio lavoro HIGHER xtn. e mi ha chiesto di produrre dei documenti per garantirne la conservazione e per poterlo trasmettere a generazioni future. È un processo lungo che include la produzione di video documentazioni non solo delle performance ma anche delle prove, di interviste con l3 performer, così come di una serie di testi che spiegano in dettaglio gli aspetti concettuali e pratici sviluppati nel corso della ricerca. Questo è probabilmente per via del carattere immateriale della performance, che si cristallizza solo nel pensiero di chi assistendo riesce a coglierne l’essenza.

TBD: Parlaci della tua operazione per Look at me. Il titolo che hai scelto per la performance racconta della volontà di ribaltare l’impostazione scenica e voyeuristica tipica dello strip club per creare un’intima esibizione enfatizzando come il corpo in movimento possa diventare un linguaggio d’imprevista introiezione. Qual è stato il processo di preparazione con la performer Nermah Khair, protagonista dell’azione? E ancora, qual è stato il percorso di occupazione di uno spazio come quello dello strip club, con il suo pubblico abituale e il suo essere luogo d’esibizione simbolica e concreta di corpi e identità?

M.R.: Quando Nermah si trova sul palco dello strip club si chiama Luna. Ho chiesto a Nermah di utilizzare il palco per rivolgere l’azione del proprio lavoro a se stessa, quindi ho chiesto a Luna di ballare per Nermah. Le ho chiesto di chiudere gli occhi per riuscire ad astrarsi il più possibile dall’ambiente circostante. Ma quasi subito ci siamo res3 conto che non era facile distinguere chi delle due stesse ballando per chi. Quando, chiudendo gli occhi, si percepisce  il corpo solo attraverso il movimento anche l’identità inizia ad essere più fluida. Seppure all’apparenza semplice, il percorso non è privo di difficoltà, ma proprio la fragilità di questa operazione mi ha convinto del fatto che fosse importante esporla agli occhi del pubblico. Ci siamo chiest3 se ci si potesse approcciare alla danza come un mezzo di autoerotismo e di conoscenza del sé e se si potesse svelare in maniera pubblica l’aspetto più intimo di questo approccio. In questo senso, il fatto di esibirsi sul palco dello strip club in questa maniera è diventato centrale, abbiamo voluto intenderlo come un’opportunità per spogliarsi in un altro modo, per dimostrare che la fragilità ha il diritto di essere mostrata nella sua bellezza.