LOOK AT ME vol. ii – INTERVISTA CON Cult of magic 

Cult of Magic è un collettivo di ricerca che opera in ambito coreutico, musicale e performativo fondato a Milano dal compositore Francesco Sacco, le coreografe e danzatrici Samira Cogliandro e Giada Vailati. Il lavoro del collettivo è nato intorno ad un ambito di ricerca bene identificato, che, oltre che al loro esito, ha caratterizzato le modalità di creazione dei primi lavori della compagnia: ponendosi l’obiettivo di abbattere i confini di genere e cercando di ripristinare il valore del rito e della spiritualità dell’atto artistico sono nate le prime due produzioni del collettivo, il disco “:O” e la performance “Le Serpent Rouge”, entrambe intrise di una forte componente esoterica, simbolo della ricerca dell’uomo contemporaneo e della possibile funzione catartica dell’arte nel mercato odierno. 

Cult of Magic, "Questo è il mio Corpo (Un’altra Ofelia), 2023, @LOOK AT ME vol. II, photo by Dalila Slimani
Cult of Magic, "Questo è il mio Corpo (Un’altra Ofelia)", 2023, @LOOK AT ME vol. II, photo by Dalila Slimani

Nell’intervista che segue rispondono alle domande, in rappresentanza del collettivo, Francesco Sacco e Giada Vailati.

TBD: Perché avete scelto di chiamarvi “Cult of Magic”? Culto, magia, rituale e performance sono infatti da sempre parte di un comune bacino teorico. Come interpretate questa connessione nella contemporaneità? Perché secondo voi è ancora importante parlare di magia?

F.S.: Ho pensato il nome “Cult of Magic” nel 2015, ancora prima di conoscere Giada e Samira e di approcciare il mondo della performance e della danza contemporanea. Cult of Magic, quindi, è un contenitore creato a prescindere dal suo contenuto. Il presupposto da cui sono partito è proprio la messa in discussione del concetto di culto, che vedo in contrapposizione a quello di magia: mentre il culto è una pratica collettiva e tendenzialmente fideistica, la magia è antropocentrica, individualista. L’idea era quella di creare una specie di corto circuito tra questi due concetti, un po’ come hanno fatto Aleister Crowley e altri esoteristi di inizio secolo che hanno riempito molti sistemi religiosi (inclusi i monoteismi) di significati nuovi, semplicemente sovvertendone le dinamiche. La performance poi è un linguaggio trasversale, presente sia nel campo del culto che in quello della magia. Facendo arte, la mia e la nostra idea è quella di creare anche opportunità spirituali attraverso la nostra pratica. 

G.V.: La scelta di sottolineare il concetto di rituale è molto connessa con il tipo di lavoro che facciamo, che ha una sua ritualità sia nell’atto creativo che nel momento di restituzione. Quando pensiamo a un nuovo lavoro ci prendiamo un tempo per studiare, per sviluppare una drammaturgia, e questo avviene dopo tanti momenti di condivisione di pensieri e di idee. In un secondo momento andiamo in sala prove, dove con il corpo e con la composizione musicale diamo vita a quello che poi sarà il prodotto finale. Tutto questo prende un tempo e attiva delle pratiche che, a mio avviso, sono molto vicine a un rituale. Stessa cosa quando si porta in scena il lavoro: lì il pubblico, venuto per vedere uno spettacolo e quindi per ricevere qualcosa, è protagonista tanto quanto noi. Si instaura una connessione molto importante che in qualche modo dà un senso finale al lavoro, cioè condividerlo e viverlo insieme a chi sceglie di essere lì con noi.  

TBD: Le vostre performance avvengono in differenti contesti. Pensiamo in particolare a Le Serpent Rouge, realizzato sia al carcere di Bollate che al Teatro Continuo di Alberto Burri, a Parco Sempione. Che relazione esiste tra spettacolo e contesto architettonico nei vostri lavori?

G.V.: Più che di contesto architettonico parlerei di contesto in generale. Nessuno dei lavori che abbiamo creato finora è nato site-specific. Anzi, abbiamo sempre ragionato all’opposto, creando quindi spettacoli facilmente adattabili a contesti molto diversi fra loro, con una tecnica base molto agile che può eventualmente essere integrata dove possibile, per esempio sul piano luci. Se andiamo in scena di giorno outdoor, come è successo al Burri, usiamo la luce naturale, tendenzialmente al tramonto, momento della giornata in cui naturalmente avviene un cambio di illuminazione nel tempo della performance, mentre se siamo in teatro possiamo studiare un disegno luci molto più curato. Sperimentare contesti diversi, e quindi pubblici diversi, è una parte importante della nostra ricerca: portare la stessa performance in un museo, in un teatro o in un club permette di avere riscontri radicalmente diversi, più o meno “filtrati” da quelle convenzioni tipiche di certi luoghi della cultura; sono dinamiche che cerchiamo di rompere, o perlomeno a cui non lasciamo molto spazio nel nostro lavoro, “duro e puro” se vuoi, che cerchiamo invece di rendere fruibile in modo diretto e istintivo, senza troppe nebbie interpretative. 

F.S.: Per quanto mi riguarda il contesto architettonico, o in generale idee o suggestioni prese in prestito dall’architettura, riguardano più la fase di creazione che quella di messa in scena. Abbiamo lavorato in varie occasioni a stretto contatto con architetti, e sicuramente ripensare il corpo come un ambiente che abitiamo ha influenzato molte nostre creazioni. Per scelta non abbiamo mai creato pensando a una restituzione in un ambiente specifico, abbiamo piuttosto rimodulato le nostre produzioni in base all’ambiente, del quale fa parte anche l’architettura.

TBD: In che modo il gesto, il movimento e la performance hanno per voi la capacità di “abbattere e disorientare” i generi?

F.S.: La creazione è un atto politico, oltre che un atto di libertà. Lo spazio della sala prove è la materializzazione di un luogo interiore nel quale si può decidere tutto, inventare un alfabeto, sovvertire leggi fisiche o spaziali, quindi sicuramente è un ottimo territorio anche per mettere in discussione il binarismo di genere, anche se è un tema che per ora non fa parte della nostra ricerca. Abbiamo sempre messo in scena vicende umane che trascendono il discorso di genere, quindi mettendo in secondo piano la questione, occupandoci spesso di quello che in tedesco si direbbe “mensch”, in greco “anthropos”, parole traducibili con “individuo”, anche se la nostra lingua, a differenza di greco antico e tedesco, non prevede il genere neutro.

G.V.: La danza e la performance, come ogni ambito creativo, possiedono dei codici di riferimento che, soprattutto nel contemporaneo, vengono continuamente alterati, superati, trasformati: ci sei tu con il tuo corpo, da solo o insieme ad altri, nella completa libertà di trasmettere le immagini, i pensieri, l’estetica che vuoi attraverso il tuo lavoro. È una dimensione “zero” dove puoi considerarti scisso da qualsiasi convenzione o etichetta, oppure puoi decidere di prendere una posizione chiara su un argomento: non ci sono regole, è un percorso in divenire che scrivi di tuo pugno. La cosa che mi chiedi è molto specifica: sicuramente un corpo che danza in scena è tendenzialmente un tramite, ciò che conta in quel momento è l’azione e il racconto al di là del suo sesso.

TBD: Raccontateci come siete arrivati a concepire la performance Questo è il mio corpo (un’altra Ofelia) per Look at me vol.II? Come si relaziona con il contesto del Plastic e con gli altri corpi presenti?

F.S e G.V.: Questo è il mio corpo (un’altra Ofelia) nasce da una commissione di Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento a Firenze. La richiesta era quella di ripensare il classico shakespereano in base al nostro linguaggio: una bella sfida, visto che non ci siamo mai occupati di temi così tradizionali. Ci è venuto subito naturale rimodulare la drammaturgia dell’Amleto in base a un tema marginale nel testo originale, ma nevralgico per la contemporaneità, ovvero il possesso del corpo. Avendo scelto di orientarci su un’estetica molto vicina al mondo del clubbing il link con il Plastic è venuto abbastanza naturale, anzi, rappresentarlo in un club ha sicuramente aggiunto segni e significato al lavoro. Un appuntamento che si inserisce perfettamente nel discorso sul pubblico che portiamo avanti da anni, processo che si è spesso concretizzato nella messa in scena di nostre performance in luoghi non convenzionali.

TBD: Loop e ripetizione del gesto vengono spesso associate a un’idea di alienazione, soprattutto se applicate all’ambito del lavoro. In quale misura e a quali condizioni, secondo voi, essi possono invece condurre a una liberazione del corpo? 

G.V.: In questa performance ho scelto di usare il loop del movimento come fosse una sorta di altalena che oscilla fra alienazione e affermazione, quindi ci sono entrambe le componenti. Ripetere un movimento senza tregua, che si modifica leggermente nella forma ma che cresce continuamente di intensità, ha un effetto in un certo senso catartico: a un certo punto lo sforzo fisico è tale da non essere più sicura di riuscire a controllare il corpo, e questo è il momento in cui avviene la liberazione, in cui lasci andare le difese e vedi dove arrivi. Ogni volta infatti è diverso e non sempre raggiungo lo stesso livello di “scissione”. Contemporaneamente, però, lo scopo non è arrivare alla totale perdita dei sensi: la nostra rilettura del personaggio è volutamente aperta, non proponiamo una “fine” specifica (che in questo caso sarebbe la morte di Ofelia) ma lasciamo delle domande. Questo rituale stremante è un tentativo di prendere una posizione oppure è la scelta di abbandonarsi a un destino già scritto? Al di là di Ofelia, che è un exemplum, abbiamo messo in scena un processo che riguarda il corpo e che, portandolo nella contemporaneità, mette in discussione quella certezza di libertà di azione, esposizione, trasformazione, metodi di cura dei nostri corpi che il nostro tempo ci fa credere di avere.

F.S.: La ripetizione è un codice molto antico, che ancora prima che al mondo del lavoro appartiene a quello del rituale. Pensiamo ad esempio alla messa, alla preghiera o al mantra: sono forme di ripetizione che cercano di allontanare la coscienza dalla realtà con una funzione spirituale. Trovo che in generale ripetizione, loop e catarsi siano codici legati da un fil rouge molto visibile: basta pensare alla funzione del canto nel lavoro (nei campi di cotone ad esempio), situazione nella quale il sottolineare la ripetitività del gesto aiutava il processo di astrazione, una specie di piccolo rituale per uscire dal corpo e liberarlo dalla sua condizione temporanea (di fatica, in quel caso). In generale il loop ha sempre avuto una funzione di avvicinamento verso qualcosa di superno, dalla ripetizione di una preghiera, nella quale l’uso della parola diventa a-referenziale, alla codifica dei balli tradizionali, nei quali la dimensione estatica è forse ancora più evidente.