from outer space
“Camminando faccio caso all’ampiezza inedita della mia falcata – distesa, famelica – e mi dico che questo mutamento dipende dal modo in cui in generale è mutato il rapporto tra il mio corpo e lo spazio intorno.” (Vasta 2016)
La condizione attuale, a seguito dell’emergenza sanitaria globale dovuta alla diffusione del COVID-19, ci ha portati inevitabilmente a ripensare e a mettere alla prova i concetti di storia, democrazia, potere, socialità e arte. Le posizioni sono tante e diverse, ma su una cosa si è d’accordo: qualcosa è cambiato, anzi tutto è cambiato; dalla nostra quotidianità al nostro rapporto con lo spazio e la tecnologia, tanto con le persone quanto con le immagini. Costretti all’isolamento abbiamo dovuto ridimensionare la nostra visione, non più aperta a un orizzonte lontano, ma ridotta allo schermo di un monitor. Le interazioni comunemente considerate “reali” che coinvolgono cioè una presenza fisica e comunicativa immediata, sono state inevitabilmente sostituite, per buona parte, dall’immagine digitale e dalle sue potenzialità operative.
Nei primi anni Duemila W.J.T. Mitchell annuncia il pictorial turn, un fenomeno da lui definito vera e propria riscoperta post linguistica e post semiotica dell’immagine intesa come interazione complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività. Momento di svolta in cui rivela la nuova possibilità delle immagini di assumere una propria autonomia e capacità di essere luogo dei desideri.
Le immagini che ci ritroviamo di fronte sono ormai più che agenti attivi capaci di desiderare, di riprodursi e di esercitare potere alla stregua dell’uomo: diventano ogni giorno di più vero e proprio strumento di costruzione dell’Io, di pari passo con ciò che lo circonda. Lo stesso spazio, domestico, cittadino o urbano, ha assunto una valenza del tutto nuova grazie ai processi immaginativi stimolati dalla riproduzione per immagini. Durante una conversazione sulla piattaforma di Zoom, per fare un esempio, l’immagine ci offre accesso diretto a piccole e inesplorate porzioni architettoniche. Percepiamo l’interno di una stanza, la struttura di una terrazza o di un paesaggio circostante, delle sezioni, degli spunti tradotti in immagine. A partire da queste informazioni iniziamo a ricostruire nella nostra mente degli ambienti, in cui l’architettura fisica e reale è percepita diversamente, influenzata dal flusso della visione e dalla percezione individuale.
Tornano attuali le definizioni di eterotopia riportate da Michel Foucault nelle conferenze radiofoniche del 7 e 21 dicembre 1966 che riferiscono una consapevolezza storico-sociale applicabile ancora oggi, cinquantaquattro anni dopo. La regola generale dell’eterotopia – “giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili” (Foucault 1966) – può essere riletta non più solo considerando lo spazio architettonico, o meglio urbanistico, ma anche in relazione a quello che ormai è diventato il nostro spazio quotidiano: il digitale. Strettamente collegate al concetto di utopia, come luoghi non esistenti e irraggiungibili, le eterotopie foucaultiane descrivono invece spazi reali, di interazione, in cui rapporti e relazioni vengono neutralizzati o ribaltati. Le eterotopie sono spazi sociali, progettati all’interno del tessuto urbano in cui convivono elementi e situazioni apparentemente inconciliabili. Le considerazioni e gli studi di Foucault sull’esistenza e l’utilizzo di questi spazi ibridi derivano da una ricerca di natura teorica, mentre le riflessioni dell’architetto Rem Koolhaas sono materiali e si riferiscono a specifici progetti architettonici. Si affianca al concetto di eterotopia la definizione concreta e reale di Junkspace (letteralmente “spazio spazzatura”), definito da Koolhaas come il residuo che l’umanità lascia sul pianeta (Koolhaas 2006). Si tratta per l’architettura di una dimensione stravolgente, che si commistiona con le complessità della struttura socio-culturale della contemporaneità. Privo di progettualità, il Junkspace è uno spazio caratterizzato da una pluralità architettonica che mette in discussione i dettami legati alle relazioni sociali appartenenti al luogo. L’incertezza nell’orientamento data dall’intersezione con geografie e temporalità diverse, fino a quel momento indirizzate dall’architettura, conferiscono al Junkspace la capacità di creare relazioni tra gli spazi e al contempo sovvertirle.


L’eterogeneità di questi due concetti teorici e pratici, riconducibili entrambi a un pensiero architettonico che entra in contatto con le dinamiche sociali, può essere convogliata in un’analisi contemporanea dell’attuale contesto spaziale, fisico e digitale. Esserci nel virtuale prende il posto della presenza fenomenologica e conferisce rilevanza all’ambiente sociale a-fisico, a questo punto altrettanto fugace e amnesicamente irreale (Li 2016).
Teatro delle nostre vite, rinnovata realtà, lo spazio digitale ricostruisce e rimodella le architetture, dentro le quali assecondiamo nuove gestualità e movimenti. Un cambiamento in atto già a partire dalla fine degli anni ottanta, quando iniziano ad essere evidenti gli effetti socio-culturali dei nuovi media elettronici e la presenza fisica non si dimostra più requisito essenziale dell’esperienza diretta. Lo studioso Joshua Meyrowitz parla proprio di evoluzione generata dai media e di diminuzione del significato dell’ “essere fisicamente presenti”. Di conseguenza si riduce il valore delle strutture fisiche che un tempo dividevano la nostra società in molti spazi ambientali di interazione (Meyrowitz 1995). I nuovi pubblici e le nuove “arene” in cui ci troviamo non sono più necessariamente tangibili, non esistono nel tempo e nello spazio. Anzi, proprio la riorganizzazione degli ambienti sociali in cui le persone interagiscono indebolisce il rapporto stesso tra luogo fisico e dinamiche sociali. Una rinnovata staticità corporea coinvolge il nostro comportamento e sottende un dinamismo virtuale. Dalle parole di Meyrowitz sono passati quasi tre decenni, sono anni di profonde trasformazioni e di riscrittura del concetto di spazio, eppure, sulla base della sua analisi, ci continuiamo a domandare come stia cambiando l’architettura e, di conseguenza, l’urbanistica dopo l’avvento dei media elettronici e dei dispositivi digitali. La progettazione stessa degli assetti compositivi si rinnova e influisce sulla comprensione di cosa sia o potrebbe essere un’architettura “reale”.
Indispensabili sono le testimonianze di Hani Rashid, architetto e co-fondatore di Asymptote Architecture assieme a Lise Anne Couture. Da sempre impegnato nella realizzazione di progetti che sfidano la tecnologia e il virtuale, riconosce che il regno digitale ha influenzato e plasmato il modo in cui pensiamo al reale, suscitando ulteriore interesse verso la creazione di ciò che potremmo chiamare “invisibile” (Rashid 2017). Le produzioni architettoniche si delineano dietro quinte fatte di schermi e software di progettazione. L’immagine fisica vive nella dimensione digitale prima ancora che nel mondo “analogico”, creando possibilità ed esperienze.
In questo senso, le dinamiche sottese al mondo dei videogiochi e di spazi di costruzione virtuale, come la celebre piattaforma di Minecraft o le vite parallele in The Sims e in altri programmi di simulazione, possono offrire un punto di osservazione interessante nel rapporto che intercorre – e che spesso viene creato – tra architettura ed esperienze reali e architettura virtuale ed esperienze immaginative.




Rispetto alla produzione artistica, spesso e sempre più traslata nel campo del digitale, è interessante valutare ciò che Nicolas Bourriaud definisce nel 2005 Altermodern, un concetto basato sul superamento del postmoderno in cui “gli artisti sono alla ricerca di una nuova modernità basata sulla traduzione: ciò che conta oggi è tradurre i valori culturali dei gruppi culturali e collegarli alla rete mondiale” (Bourriaud 2005).
Immettendosi nella rete, concetto ad oggi messo fortemente in discussione, la produzione fisica o virtuale di qualsiasi tipo di contenuto che sia artistico, architettonico o extra-culturale, amplifica una serie di questioni introdotte negli anni dai concetti di di cross-medialità, interattività, digitalizzazione, realtà virtuale e immersività.
Nell’opera Bonus Level (2013 – in corso), l’artista Lawrence Lek sfrutta le dinamiche dei videogiochi per dimostrare come le immagini digitali dell’architettura diano forma a un complesso patrimonio culturale. Il progetto è composto da rendering di diversi luoghi londinesi ridisegnati in una città virtuale. Lek rielabora geografie di luoghi esistenti, dando vita a finzioni che attingono dal linguaggio architettonico e cinematografico. Lo spettatore, nelle vesti di flaneur, osserva i video e le installazioni da una prospettiva in prima persona; ripercorre ambienti noti e soddisfa il proprio desiderio di esplorare una nuova utopica città.
Si fa sempre più costante il parallelismo tra un’architettura che testimonia il passato e il presente ed una che invece guida verso il futuro, con nuovi movimenti e riassegnazioni di coordinate spaziali e temporali. Strettamente collegato alla fruizione di opere come quelle di Lawrence Lek è il progetto – anche se pensato vent’anni fa – realizzato dai già citati Hani Rashid e Lise Anne Couture: il Guggenheim Virtual Museum (GVM). Il GVM rimane il prototipo di un museo virtuale, avviato e voluto da John Hanhardt, curatore senior di Film and Media Arts, e dal curatore Matthew Drutt, con il sostegno della Fondazione Bohen. L’architetto parte dal presupposto che il mutamento percettivo della realtà si traduca anche nel modo in cui la New Media Art ridefinisce la sua stessa fruizione. I confini fisici del museo non sono più sufficienti a contenere un’arte che si espande nell’iper reale, ma lasciano la libertà al fruitore di ricreare nuove tridimensionalità, inserite in nuove realtà virtuali. Il progetto di Asymptote Architecture rimane un prototipo per un museo virtuale, che ricorda vagamente la spirale di Frank Lloyd Wright, ma estende ed espande i suoi confini con la prospettiva di ospitare opere d’arte digitale, non inscrivibili all’interno di mura di cemento. Il GVM rimane un museo in potenza, uno spazio utopico da aggiungere alle già esistenti sedi di New York, Venezia, Bilbao e Berlino. Se nell’opera di Lek, Bonus Level, lo spettatore-flaneur passeggia attraverso architetture riconoscibili, nel progetto per il GVM il pubblico si trova in una “non-architettura” formata da un ambiente 3D dinamico: i portali web mostrano parte della collezione del museo dedicata a opere d’arte digitali interattive e nuovi media.
La condizione socio sanitaria e il conseguente cambiamento culturale che stiamo vivendo riaffermano l’importanza di pensare alla fruizione dell’arte digitale e alla trasformazione dello spazio digitale stesso. Nella consapevolezza che il progetto del GVM si colloca in un periodo piuttosto lontano, la situazione attuale ci spinge a rivedere il disegno ideato da Asymptote Architecture, implementando il museo, considerando gli sviluppi tecnologici che hanno perfezionato sia strumenti che opere d’arte digitale. La prospettiva si inscrive in un inesorabile sgretolamento dei confini tra fisico e virtuale, che si traduce sia nell’esperienza fisica di fruizione dell’opera e di occupazione di uno spazio, sia nell’esigenza tutta digitale di dar il meritato “valore” all’opera stessa.



Anna Casartelli
Francesca Manni
Bibliografia e sitografia
- Foucault M 1966, Utopie. Eterotopie, a cura di Moscati Antonella, Cronopio, Napoli 2020.
- Koolhaas R 2006, Junkspace, Quodlibet, Macerata.
- Lek L, Real Worlds, in “e-flux”, 13 ottobre 2019
(https://www.e-flux.com/architecture/positions/291018/real-worlds/). - Meyrowitz J 1995, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna.
- Mitchell W.J.T. 2009, Pictorial turn. Saggi di cultura visuale, Cortina Raffaello Editore, 2017.
- Rashid H, Learning from the Virtual, in “e-flux”, 25 luglio 2017. (https://www.e-flux.com/architecture/post-internet-cities/140714/learning-from-the-virtual/).
- Vasta G, Fazel R 2016, Albsolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, Quodlibet – Humboldt Books, Macerata.
- Xiaofan AL 2016, The Abject Heterotopia: Le Città Invisibili and “Junkspace”, Forum for Modern Language Studies, Oxford.
- Sito di Lawrence Lek https://lawrencelek.com/
- Sito di Asymptote Architecture https://www.asymptote.net/