dell’orchidea pittrice
L’ophrys apifera è una pianta appartenente alla famiglia delle orchideacee che, per rendere più efficace il suo processo di impollinazione, ha reso il suo fiore una copia vegetale e astratta dell’addome delle femmine di alcune specie di imenotteri. Il caso vuole che lo specifico insetto a cui il soggetto vegetale si rivolgeva sia ormai estinto. L’orchidea seduttrice, tornata per necessità a una più cauta, quanto meno funzionale, autoimpollinazione, conserva nella sua espressione formale l’unico ritratto di un antico ed estinto insetto.

L’idea che un vegetale possa produrre, senza accesso a organi di visione, una forma mimetica e funzionalizzata è quantomeno destabilizzante. Abituati a una concezione di natura e del non umano estraneo e sordo alle interazioni con la nostra senzienza, il concetto stesso di un’orchidea ritrattista innesca una serie di reazioni emotive contrastanti. Reazioni che ci portano a riaffermare la necessità di ripensare una vecchia protagonista della storia della filosofia e dell’estetica: la natura. Al centro di ogni discorso mediatico che si rispetti e della più grande ansia generazionale dai tempi di Nostradamus, la natura ritorna oggi a essere una fondamentale entità con cui fare i conti.
Ma cos’è la natura?
Partiamo dai luoghi comuni: sfidiamo qualsiasi mammifero umano occidentale, se interrogato sul concetto di natura, a non pensare istintivamente a un bosco, una prateria, delle montagne o a un panorama marittimo incontaminato. Niente di male, si dirà. Ma cerchiamo di capire meglio perché questa connessione logica e visiva è così tanto radicata e condivisa, oltre che subdolamente pericolosa. La Natura, come entità o personificazione[1], ha vissuto alterne fortune e considerazioni (ci si limiterà in questa sede alla cultura occidentale). Dalla romana materia prima da domare, alla matrigna indifferente leopardiana, dalla generatrice di sublime romantico all’entità-vittima da salvaguardare e difendere, la natura ha vissuto negli ultimi secoli (se non millenni), una narrazione che fa della contrapposizione con l’umano il suo primario motore propulsore. Non è infatti un caso che, sempre continuando con una necessaria generalizzazione, l’immagine intuitiva di natura, di cui si parlava prima, non includa mai una visibile antropizzazione, che piuttosto fa collassare un’idea stereotipata di “incontaminazione”.
Ma quando questo processo di netta separazione ha preso forma? I colpevoli sono molti, l’homo sapiens (sapiente, raziocinante e non certo naturalis), ha fatto del suo essere cogitante principale motivo identitario, in contrapposizione (gerarchizzata) a tutta quella res extensa (animale e inorganica), al suo servizio. Del resto, anche quell’egoista del Creatore non ci è andato troppo leggero; si legge infatti nella Genesi 1, 26: “E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla Terra’”. Insomma, da tali premesse non ci si poteva che aspettare una narrazione egemone fondata sulla separazione e dominio sulla natura.
Va bene, non c’è forse bisogno di quest’astio per i primi homo sapiens (e tantomeno per il Creatore), ma la storia del rapporto tra uomo e natura (in Occidente, ricordiamocelo) è la storia di una narrazione, collettiva e condivisa. E, se le narrazioni fanno la storia che raccontano (the medium IS the message!), quella dell’homo sapiens non è di certo fra le più felici per il soggetto-natura.
Il Quattrocento italiano, e poi europeo, ha dato un ulteriore input alla narrazione della separazione, codificando la stagione, appunto, dell’Umanesimo. Lungi dal definire le riflessioni umaniste come anti naturali (o meglio, anti eco-logiche, utilizzando un termine ante litteram), è tuttavia innegabile come l’antropocentrismo galoppante di quelle stagioni abbia definito l’irrecuperabile iato fra uomo e altro da umano, che viviamo ancora oggi. La narrazione umanista percepisce nell’animalità (a eccezion fatta per alcuni suoi usi metaforici, e quasi esclusivamente cristianizzati) e nel concetto di Natura, qualcosa di affine al demoniaco e al deviante. Interessante è, nello stesso periodo, la riaffermazione di una naturalità dell’uomo, ridefinita e resa sinonimo di rettitudine. Il contro naturale, sintagma estremamente radicato, identificava (e identifica) ogni tendenza considerata non “naturale”, dove per naturale s’intende la dimensione etico-morale. Un’antinomia, dunque, presto risolta: la naturalità, in questa declinazione, non è altro che la proiezione di una codificazione espressamente culturale (e quindi esclusivamente umana), su un substrato universale come quello della Natura, volto alla legittimazione totalitaria di una narrazione possibile.

Erede dell’impostazione antropocentrica, l’identità illuminista è sicuramente una tappa centrale del rapporto umano-non umano. L’impianto universalizzante ed enciclopedista definisce la natura e l’altro dall’umano primaria materia d’indagine scientifica. Si tratta di anni che ricoprono un’importanza fondamentale per il nostro discorso anche per un altro motivo: la nascita della disciplina estetica. La settorializzazione di una branca della filosofia che si occupa del rapporto tra uomo e visione (dell’arte, in primis), genera in automatico delle riflessioni sulla percezione del non umano, del prodotto (dell’artificiale artistico ad esempio) e, ovviamente, della natura. L’estetica tradizionale, ha dunque una forte impostazione razionale e antropocentrica: il mondo diviene palcoscenico visivo con il quale l’uomo dialoga, quasi sempre da protagonista. La disciplina estetica ha tuttavia in sé un interessante e inaspettato potenziale concettuale. Ci siamo fin qui addentrati in un’improbabile e frastagliata micro storia dell’antropocentrismo, e in questo panorama il fattore estetico può diventare esplosivo ordigno di crescita anti antropocentrica. L’esperienza estetica concerne, come già detto, un oggetto estraneo al soggetto che percepisce. Per comodità e perimetro di analisi la non umanità in questione riguarderà qui esclusivamente la natura. Ecco dunque che cominciamo ad addentrarci nel più specifico codificarsi dell’idea di natura popolarmente considerata: l’impostazione estetica tradizionale (quella kantiana, per intenderci), leggeva nel naturale una componente universale; una narrazione che ne definiva lo statuto di differente da umano (che viceversa è culturale, in progresso e mutevole) e che quindi aveva di per sé una componente ciclica e a-storica. Su questa base fu infatti semplice per la cosiddetta estetica romantica concepire nell’espressione del bello naturale un perfetto paesaggio sul quale proiettare percezioni soggettive. Ecco che nell’idea di natura, seppur protagonista dell’analisi e del ragionamento estetico romantico, si perpetua la dimensione di separazione soggettivista, dove essa rimane non solo altro da noi, ma substrato plasmabile e finalizzato alla proiezione (o all’induzione) emozionale.
Insomma, la natura quale soggetto estraneo, e quale cartolina plastificata e de-antropizzata di cui si parlava all’inizio, deve molto (se non tutto) a questa codificazione estetica, ormai quasi genetica, che noi occidentali ci portiamo appresso.
Bene, avrete capito dove si vuole andare a parare: l’antropocentrismo assolutista ha portato alla possibilità (sempre più concreta) di distruzione di ogni bios (paradossalmente, umano compreso). La millenaria convinzione che il soggetto-natura sia altro da noi (appunto, un soggetto), ne ha decretato la possibilità etica di sfruttarlo, capitalizzarlo e, conseguentemente, distruggerlo.
Tale modello ha – oggi più che mai – conosciuto forti movimenti oppositivi che tuttavia hanno visto, soprattutto nelle loro prime fasi, un reiterarsi di un modello disgiunto, percependo la natura (e l’animalità nello specifico) come, di nuovo, soggetto altro, questa volta bisognoso di una salvaguardia, umana e, diciamolo, anche un po’ paterna.
Qual è dunque la rivoluzione di cui abbiamo bisogno? E, ancora, perché il fattore estetico può essere primo motore di questa rivoluzione?
Il punto di svolta logico a cui si fa riferimento è quello del postumanesimo. Come ogni momento post della storia del pensiero recente, il suo bacino è labile, frastagliato e sempre in esondazione. Tuttavia è chiaro il punto di partenza: l’uomo e la cultura che ne sanciva la centralità universale sono un problema, e non da poco. Bisogna attivare metodologie d’indagine liminali, che ci permettano di ricucire quello iato millenario tra uomo e altro da sé. L’idea stessa di una relazione disgiunta fra soggetto e oggetto (qui declinabili in uomo e natura) è di per sé estremamente parziale. Come sostiene Roberto Marchesini, non esistono soggetti, ma solo relazioni: ogni processo dialogico che prevede una reificazione di uno degli agenti coinvolti sta negando il valore di scambio del rapporto stesso. Cercando di essere più chiari e esemplificando il concetto con l’oggetto della nostra analisi: concepire la natura come altro da sé (e quindi rendendola oggetto), nega quel mutuo processo di influenza e mutazione che l’uomo sperimenta nel suo vivere nella e con la natura, e viceversa.
Lasciarsi alle spalle la calda e accogliente sensazione antropocentrica è complesso e apparentemente non conveniente. Andare oltre se stessi (come specie culturale) è un processo di de-potenziamento a tutti gli effetti. Per esempio: de-potenziandoci come umani attraverso la tecnologia ci siamo resi dipendenti da essa: è un dato di fatto, dove la dipendenza non si carica di valore di giudizio. Allo stesso modo andare oltre noi stessi significa disvelare la nostra con-dipendenza dall’altro da noi, e quindi renderci maggiormente correlati al mondo.
E proprio su questo assist concettuale che il ruolo della percezione estetica si rende trampolino perfetto per l’interazione correlata con la natura.
Gernot Bohme, filosofo tedesco classe 1937, è interessato a quella che lui stesso definisce “estetica atmosferica”. L’estetica atmosferica studia i processi propriocettivi dell’uomo in correlazione con l’ambiente. Fin qui nulla di troppo diverso dall’estetica tradizionale, ma, continua Bohme: “L’estetica come teoria della percezione scopre un tratto fondamentale della natura che sfugge alla scienza naturale, a ogni modo a quella moderna. Nella percezione la natura ci viene incontro come percepibile, essa è, con il termine greco, aistheton” (Gernot Böhme 1995). La “percepibilità” della natura in Bohme è fondamentalmente corporea (dove il corporeo è antitetico a un discorso raziocinante). Le similarità con il modello del Sublime sono diverse, e la contraddizione con il discorso antropocentrico non spaventa: attraverso la percezione proprio-corporale (il brivido del sublime è a tutti gli effetti una sensazione corporea), l’estetica atmosferica può aggiungere un fertilissimo enzima all’analisi ecologica.
La natura, che a questo punto può essere chiamata bios[2], vive nell’estetica atmosferica una possibilità di “presa in considerazione” finalmente completa. Un modello de-soggettivo può infatti renderci non più punto focale, ma parte di una circonferenza concettuale dalla quale guardare il mondo in senso paratattico. Nell’estetica contemporanea in generale, comunque, si insiste sempre di più sul ruolo del corpo e dell’ambiente nella costruzione della nostra architettura cognitiva. L’uomo, parte integrante del suo stesso ambiente, costruisce la propria esperienza in termini ineliminabilmente relazionali, coinvolto com’è nella materia del mondo. A partire dallo studio di autori classici, come ad esempio John Dewey, e grazie anche al contributo dato dalle scienze cognitive, l’estetica è dunque oggi uno degli ambiti di studio a cui guardare con interesse per ricucire il rapporto con la natura, per costruire un solido impianto teorico a sostegno della nostra naturalità.
La nostra amica orchidea non ha dunque più bisogno di essere definita pittrice. Non necessita di un’antropizzazione e le sue enigmatiche abilità artistiche vivono di una loro dignità aliena.
[1] Un processo, quello di personificazione della natura e delle entità che la vivono, condiviso e diffuso in quasi tutte le culture.
[2] Il termine, centrale nella riflessione bio-centrica di Roberto Marchesini, include ogni ente ‘biologico’, estendendo il campo del naturale e quindi riavvicinandolo all’umano.
Bibliografia
Gernot Böhme, Atmosphäre. Essays zur neuen Ästhetik, Frankfurt/M., Suhrkamp, 1995, 2003, trad. it. cit. in S. Tedesco, ‘Ästhetische Arbeit’: l’estetica di Gernot Böhme e l’attualità della retorica, in R. Messori (a cura di), Dire l’esperienza estetica, Palermo, Centro Internazionale Studi di Estetica.
Roberto Marchesini, Estetica Postumanista, Milano, Meltemi, 2019.