contro l’immersivo ornamentale

Adolf Loos, architetto austriaco di inizio Novecento, si può considerare uno dei primi fautori di quella crociata contro l’ornamento condivisa dall’intellighenzia architettonica dell’epoca. A suo dire, infatti: “L evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso” (Loos 1972, p. 220).  In piena linea con il sistema depurante dell’epoca (che ha interessato trasversalmente tutta la cultura occidentale), Loos diviene medium perfetto dell’ideologia moderna e, contestualmente, di quella iper-capitalista. Citando direttamente Loos in Parole nel Vuoto: “l’ornamento è forza-lavoro sprecata e perciò è spreco di salute. E così è stato sempre. Ma oggi esso significa anche spreco di materiale, e le due cose insieme significano spreco di capitale” (Loos 1972, p. 223).  Il contesto architettonico in Loos non può che essere circoscritto all’ambito della funzione in quanto la creazione formale è materia del genio: “I  singolo individuo non ha la facoltà di creare una forma, quindi nemmeno l’architetto. L’architetto però ripete continuamente questo impossibile tentativo – e sempre senza successo. la forma e l’ornamento sono il risultato dell’inconscia opera comune degli uomini che appartengono a un certo cerchio di civiltà. Tutto il resto è arte. L’arte è la volontà ostinata del genio. Dio gli ha affidato questo compito” (Loos 1972, p. 327) . Loos resuscita il Dio ucciso da Nietzsche per relegarlo a metafisico committente dell’arte bella senza funzione.
Loos è per certi versi un autore problematico. Il discorso qui preso in esame si carica infatti di una serie di costrutti sociali che attivano spinte colonialiste e fortemente razziste. L’idea di un soggetto “in-civile” che feticizza il piacere ornamentale (in architettura e non), divene per Loos contraltare del ben più civile edificio funzionalista.  A ridefinire tuttavia le potenzialità dell’ornamento ci pensa già Adorno, che in tempi di modernità traumatizzata spiega la possibilità di far dialogare la fantasia – quindi l’ ‘ornamento’ nel senso in cui lo intendeva Loos –  e la funzione in architettura. In Adorno funzionalità e fantasia (ornamentale) convivono in un rapporto intrecciato, generando un’atmosfera vaporizzata e inscindibile. Una posizione complessa, che non rinnega o elimina il funzionalismo come vettore progettuale, ma lo condanna se ritenuto narrazione univoca e universale.

Insomma, il gigantesco e modernista judging finger di Loos non può che suscitare oggi una discreta alzata di sopracciglia, soprattutto se proiettato nel contesto più generale di una cultura visiva. Tuttavia, cosa può essere carpito dalla critica di Loos? Perché dovremmo ritornare a guardare con sospetto l’ornamento, in determinate sue declinazioni?

Il discorso e l’identificazione del sospetto si situano soprattutto nei contesti della New Media art. Termine complesso, generico quanto spesso inutile, “New Media” comprende e raggruppa con tirannia un ampio bacino di artisti che praticano la loro arte con media digitali. In una selva di validissimi prodotti e ricerche, spuntano spesso cime arboree problematiche, che condividono un simile fogliame concettuale. Nello specifico, ricollegandosi al discorso di Loos sull’architettura, il linguaggio prescelto è, in questa analisi, il visore VR, tra i New Media sicuramente quello con più accezioni ‘architettoniche’. Spopolato di recente, il visore VR di ultima generazione (che spesso utilizza lo schermo di uno smartphone come supporto video), è diventato un medium accessibile e tra i più versatili nelle pratiche artistiche. 

Marshall McLuhan intitolava nel ‘64 uno dei capitoli di Gli strumenti del comunicare (McLuhan 2015) Narciso come narcosi. McLuhan, vate di riferimento per ogni discorso su un nuovo medium, comprende (in tempi preistorici per i new media) che la riproduzione in altro materiale (in questo caso tecnologico) di una componente umana (un arto, un’azione ecc.)  genera, per l’uomo stesso, una fascinazione anestetizzante. Ri-mediare[1] una componente umana diviene, nel caso della VR, un processo doppiamente problematico. La dimensione prostetica (tipica della cultura cyborg ancora novecentista) lascia il posto alla sostituzione ambientale. La costruzione di un ambiente virtuale implica un processo prostetico sinestetico, che coinvolge totalmente il soggetto, in maniera immersiva e, soprattutto, interattiva.
Si può dunque affermare che il visore VR porti a una rimediazione, oltre che della visione di per sé, anche dell’azione e del movimento in uno spazio. L’approccio narcotico di cui parlava McLuhan non potrà dunque che esprimersi in questo caso attraverso la ricaduta, abbastanza lineare, nella logica dell’entertainment. La similitudine fra fogliami concettuali di cui si parlava prima è, soprattutto nel contesto delle arti visive, legata a processi che puntino a intrattenere il fruitore, strizzando l’occhio all’industria del videogioco, di per sé tra le prime destinatarie del medium in questione.

Alcuni visitatori durante l'esperienza in VR di Endodrome (2019), Dominique Gonzalez-Foerster. Image courtesy Ben Davis.

Capiamo meglio. Per la Biennale di Venezia appena trascorsa, Dominique Gonzalez Foerster ha proposto, negli spazi dell’Arsenale, un’installazione interattiva basata su visori VR. Endodrome (2018) è un’opera che prevede, in una camera buia e separata dal resto dello spazio espositivo, un tavolo attorno al quale più fruitori alla volta possono esperire in realtà virtuale degli elementi astratti e similpittorici, che reagiscono agli stimoli di movimento e suono generati dall’utente (https://www.youtube.com/watch?v=AZu2YKgUqww). Gonzalez Foerster, da sempre attenta alla medialità nella sua pratica artistica, propone un vero e proprio divertissement meditativo. L’attesa per entrare al padiglione, l’attivazione dello spazio domestico attraverso il tavolo e il cortocircuito derivante dalla socialità innescata e poi interrotta dall’inizio del percorso in VR, creano un’atmosfera intrisa di aspettativa e carica emozionale che, di per sé, basterebbero a generare un happening di tutto rispetto. Il momento di effettiva fruizione tecnologica porta tuttavia il soggetto a un’esperienza estetica ridotta a un’interazione con un contenuto esclusivamente formale. Coerentemente con il pensiero di McLuhan, un’operazione di questo tipo non permette che un onanismo visivo, legato alla rimediazione dell’azione interattiva, che genera una divertita contemplazione dei propri moti interni ed esterni, presentificati nell’ambiente virtuale. L’esperienza del visitatore, di stampo pittorico, si riduce in ultima analisi a un gioco pericolosamente ornamentale. L’anestetizzazione mediale, combinata a contenuti diretti e predigeriti, elimina la complessità dell’esperienza estetica, rendendo manifesto solo ciò che è già visibile.
Occorre ribadire che la pratica generale di Gonzalez Foerster rimane efficace e attenta alla riflessione meta-mediale. Tale esempio è tuttavia utile per capire che l’inconsistenza di esperienze immersive attraverso media digitali non è un vizio solo di quelle operazioni pop, il cui ragionamento sull’immersività digitale è (più o meno) esplicito sia nella destinazione che nel target, ma anche di prodotti artistici (e la presenza in Biennale lo conferma) a pieno titolo appartenenti all’art world più patinato. Il medium specifico sembra , in questo caso, non vivere la sua dimensione storica. Il materiale, per riprendere Adorno, non è mai neutro, ma vive costantemente una stratificazione concettuale, in quanto elemento in cui è sedimentata la storia dell’uomo. Se la materia fosse inerme, l’unica “responsabilità” nella creazione artistica sarebbe attribuibile al soggetto.
La tecnologia digitale, come qualsiasi altro materiale artistico, ha una propria vitalità, con la quale l’artista deve necessariamente dialogare e sulla quale non può avere un totale controllo. Ciò implica che qualunque approccio ingenuo al materiale contrae le potenzialità del medium stesso. L’artista deve dunque ragionare con e attraverso il proprio medium, nell’ottica di annullare la polarità soggetto-oggetto. Situazioni problematiche come l’opera di Gonzalez Foerster condividono la tendenza a sostituire lo strumentale con un ornamentale accessorio (lontano da quello di Adorno), generando un risultato dal potere altamente narcotico, che le rendono facile preda di ogni forma di entertainment culturale.
Richiamando in causa Adorno: “La fantasia architettonica è allora la capacità di articolare lo spazio attraverso gli scopi, di farli diventare spazio; di erigere forme secondo scopi. Inversamente, lo spazio e il senso dello spazio possono essere qualcosa di più che mera funzionalità, solo quando la fantasia scompaia nella funzionalità. Che fa esplodere l’immanente relazione funzionale di cui è tributaria” (Adorno 2011 p.151). Al contrario, nel lavoro di Gonzalez Foerster ciò che manca è precisamente una relazione tra riuscita formale e complessità dell’esperienza estetica, di cui un buon ornamento è manifestazione, come traccia e vettore di un processo generativo.
L’opera in VR, bella e divertente, così non va oltre la mera sollecitazione momentanea dei sensi, mancando di sfruttare al meglio le potenzialità specifiche della tecnologia a disposizione. La rimediazione si esprime qui al livello zero, riproponendo quanto si sarebbe potuto fare altrimenti con un medium antico (come un pennello che lascia una traccia attraverso il movimento). Il rischio di capitalizzazione dell’opera d’arte è perciò molto elevato, dal momento che l’ornamentale nel VR, a causa del suo forte legame con l’industria dell’intrattenimento, si presta facilmente a una fruizione superficiale. Ne consegue, dunque, che molto ancora resta da chiarire intorno al rapporto fra VR e arte contemporanea, attraverso una incessante rimodulazione del rapporto con il medium, producendo teoria e sperimentazioni pratiche. 

Frame dal video immersivo di Endodrome (2019), Dominique Gonzalez Foerster, Virtual reality environment Soundscape di Corine Sombrun supportata da HTC VIVE Arts. Courtesy l'artista.

[1] A tal proposito si veda la definizione di Bolter e Grusin: “Un medium è ciò che rimedia. Un medium si appropria di tecniche, forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o di rimodellarli in nome del reale. Nella nostra cultura, un medium non può mai funzionare in totale isolamento perché deve instaurare relazioni di rispetto e concorrenza con altri media. Ci sono, o potrebbero esserci state, culture all’interno delle quali una singola forma di rappresentazione (forse la pittura o il canto) possa sussistere mostrando pochi o addirittura nessun riferimento ad altri media. Questo isolamento ci sembra oggi impossibile.” (Bolter e Gruisin 2002, p.105).

Bibliografia

Theodor W. Adorno, Parva Aesthetica. Saggi 1958-1967, Mimesi Edizioni, Milano, 2011.

Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi,  (a cura di) Alberto Marinelli, Guerini Studio, Milano, 2002.

Adolf Loss, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972.

McLuhan Marshall, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 2015.