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Negli ultimi mesi, segnati dal lockdown e dal distanziamento sociale, il mondo dell’arte contemporanea ha visto confluire progetti, mostre e opere sul web.
Da subito si è potuta osservare sia una migrazione di progetti dallo spazio reale a quello virtuale, sia la nascita di nuovi contenuti pensati ad hoc per le piattaforme online. In entrambi i casi sono stati adottati una varietà di format che hanno spaziato dal virtual tour alla performance in diretta, dalla mostra online al podcast o all’intervista in IGTV, canali già conosciuti ed esplorati ben prima che l’emergenza sanitaria incentivasse una digitalizzazione dei contenuti.
Il cambiamento sostanziale sta nel fatto che fino a pochi mesi fa la presentazione di un prodotto artistico-culturale nella dimensione del web non escludeva la possibilità di una fruizione in presenza. Alla luce degli ultimi rivolgimenti, è necessario quindi interrogarsi sullo statuto delle immagini che circolano online, considerando anche che opere prodotte con specifici tipi di media hanno dimostrato di essere più assimilabili dalle piattaforme digitali rispetto ad altre. Per esempio, immagini in movimento – film e opere di videoarte – hanno subito un cambio di paradigma radicale nella loro presentazione.
Tutto ciò non è naturalmente una novità; sono ormai storicizzate esperienze come Ubuweb, tra i primi archivi accessibili al pubblico per la videoarte, fondato nel 1996 dal poeta e artista concettuale Kenneth Goldsmith. Al contrario di piattaforme open source, Ubu ha da subito seguito un indirizzo curatoriale ben preciso. Goldsmith afferma che Ubu è “come un servizio alla comunità – è un modo per ripagare, è un modo per attirare l’attenzione sul lavoro che normalmente non rientra nei modelli economici tradizionali” [1]. Affrontando un punto fondamentale della distribuzione delle opere video online, sottolinea in diverse occasioni come si tratti di una piattaforma nata per presentare opere che non hanno alcun valore economico, ma storicamente inestimabili. Si può dichiarare che il mercato delle opere di videoarte, fino a qualche mese fa, abbia risposto alla tradizionale “logica della scarsità” secondo cui l’opera più è rara e più è preziosa. Ubu è emblematico del modo in cui i canali di presentazione slegati dal mercato hanno tentato di rappresentare un’alternativa, spingendo verso una democratizzazione e diffusione dei contenuti.
Le contingenze dell’emergenza sanitaria hanno portato attori che fino ad ora si erano astenuti dal pubblicare opere video online a ripensare al ruolo del web. L’intenzione di rendere accessibili mostre e opere da casa ha spinto anche le gallerie alla ricerca di nuovi compromessi, nella maggior parte dei casi confluiti nella pubblicazione temporanea dei lavori, ibrido tra lo streaming e l’evento.
Dal momento che l’emergenza sanitaria globale non si è ancora conclusa, viene da chiedersi cosa accadrà risolta la crisi. Una volta normalizzata la situazione, l’affollamento di immagini online potrebbe rimanere un ricordo legato alla quarantena, oppure il processo potrebbe continuare con lo sviluppo di nuove piattaforme. Il materiale prodotto in questo contesto potrebbe assumere col tempo lo status di documentazione di un determinato periodo invece che essere considerato un’opera d’arte. Infine lo streaming, ampiamente utilizzato nel corso degli ultimi mesi, potrebbe essere stato completamente sdoganato o solo accettato temporaneamente come compromesso.

Alcuni entusiasti credono che questo periodo di quarantena abbia contribuito alla fortuna della videoarte digitale condivisa online.
Per esempio, Barbara London, l’ex curatrice della sezione videoarte del MoMA, sostiene che la pandemia abbia fatto del video la forma d’arte più essenziale e accessibile, “l’arte perfetta di questo tempo” poiché gli artisti che se ne occupano sono gli unici a non risentire di limiti legati alle contingenze [2].
Sulla stessa linea si colloca anche la collezionista di opere video Julia Stoschek, che durante il lockdown ha condiviso parte della propria raccolta, per poi annunciare l’intenzione di renderla fruibile interamente online superata l’emergenza. Per Stoschek, si tratta di un’occasione per far conoscere l’intera collezione, e non solo la selezione ospitata dalle sedi fisiche di Düsseldorf e Berlino. Come London, riconosce che questa possibilità vale in particolare per determinati tipi di medium, come film e video, che consentono al pubblico e agli artisti di aggirare limiti e restrizioni [3].
Non manca chi invece mette in evidenza alcune problematiche legate allo streaming in contesti artistici. La studiosa Erika Balsom in un articolo pubblicato al termine della quarantena, afferma che “La stessa parola streaming offre un accenno al problema: le opere d’arte presentate online, le immagini in movimento, rischiano di essere assorbite in una cascata incessante di contenuti indifferenziati. I brevi tempi di esecuzione adottati da molti artisti possono rendere tali opere adatte al rapido flusso di informazioni digitali, ma significa anche che è più probabile che, ad esempio, un lungometraggio venga appiattito mentre compete per ottenere l’attenzione accanto a notifiche pop-up, TikToks, pubblicità e infografica che mappano i tassi di diffusione” [4]. Inoltre Balsom ritiene che che lo streaming confonda il pubblico rispetto la distinzione tra il formato di presentazione primario dell’opera (il museo, la galleria, lo studio dell’artista) e i formati secondari (smartphone e pc).
In generale, il contemporaneo è da sempre stato caratterizzato da un sovraffollamento di contenuti di natura visiva, fatto che durante la quarantena si è reso ancora più evidente, dovendo migrare sul digitale la produzione di contenuti artistici. In particolar modo le immagini digitali sono state quelle che hanno subìto e sperimentato dei cambiamenti maggiori, presentandosi spesso come degli ambienti che hanno tentato di includere lo spettatore nell’immagine.
L’epoca in cui viviamo è stata spesso definita post-fotografica (Fontcuberta, 2018), poiché le immagini non si limitano a rappresentare l’oggetto, garantendo la circolazione di informazione, ma piuttosto lo istituiscono. Questa dimensione dell’immagine digitale si relaziona con il concetto di operational images di Harun Farocki [5] poiché le immagini [6] esprimono del senso, generano sapere e influenzano la vita.
In quest’ottica è necessario chiedersi cosa accade alle immagini che raffigurano opere d’arte ma anche alle immagini in cui media di circolazione e supporto coincidono, come nel caso della videoarte.



Le immagini sono percepite visivamente dall’occhio umano, il quale è ovviamente situato in un corpo ma, lontane da avere effetti soltanto sulla visione e sullo sguardo, le immagini influenzano da sempre anche altri ambiti della vita come quello sociale e politico (Pinotti e Somaini 2019, p.19).
La relazione di occhio e immagine rivela ora più che mai una doppia implicazione tecnologica: da un lato i dispositivi sono protesi artificiali che modificano la nostra percezione del mondo; dall’altro i nuovi supporti di trasmissione delle immagini offrono a questi corpi nuovi modi di fruizione (Pinotti e Somaini 2019, p.21).
Inoltre, da mesi navighiamo in uno spazio astratto e rizomatico popolato da immagini che durante la quarantena sono diventate ancora più presenti. Nonostante si tratti due tipologie di immagini con statuti diversi, quelle prodotte durante la quarantena usano una grammatica che riteniamo equiparabile a quelle che Andrea Pinotti chiama an-icons o immagini ambientali; termini che descrivono quelle immagini che pretendono di ampliare il campo di visione a trecentosessanta gradi attraverso dispositivi come i visori di realtà virtuale. Le cosiddette immagini ambientali sembrano dunque voler negare il proprio statuto iconico, presentandosi come se fossero la realtà che rappresentano [7].
Il concetto di an-icon si avvicina alle immagini che negli ultimi mesi sono nate per far fruire l’arte nei modi più disparati. Le an-icon sono state associate a dispositivi come i visori VR, i quali fanno coincidere il campo di visione e il campo percettivo di chi li indossa, dando l’illusione dell’assenza di mediazione.
Le immagini prodotte durante la quarantena emulano ed imitano la grammatica visiva delle an-icon, ma attraverso dispositivi che non sono paragonabili ai visori VR. È tecnicamente difficile sentirsi coinvolti nello stesso modo fruendo i contenuti attraverso dispositivi come il pc o lo smartphone perché l’immagine artistica digitale condivisa sul web è costantemente circondata e contaminata da annunci, spot e pubblicità, costretta a combattere per emergere.
I diversi livelli che bisogna oltrepassare per arrivare a queste immagini sono molti: dai riflessi che lo schermo del telefonino proietta verso di noi (ci vediamo guardare), dal telefonino in sé stesso, alle piattaforme come Facebook, al superamento delle cornici dei contenuti interni alle app e all’ignorare i disturbi visivi di contorno. Solo alla fine di questo percorso frammentato arriviamo all’immagine dell’opera.
Spontaneamente ci si domanda se tali immagini siano da considerarsi la documentazione di un evento artistico in uno spazio virtuale o se siano invece la mostra vera e propria. Gli elementi di disturbo che popolano il web sono parte integrante dell’opera?
Il fruitore trova difficile scindere i contenuti relativi all’opera dal suo supporto, tra il materiale artistico e la sua semplice comunicazione.
Le immagini nate durante la quarantena vorrebbero somigliare alle an-icons in quanto la loro intenzione è quella di negare il proprio statuto iconico inserendo il fruitore in un ambiente, e sono operative poiché presentano delle effettive ripercussioni nel mondo.
Il progetto ambientale proposto da certe immagini digitali nate negli ultimi tempi deve confrontarsi necessariamente con la materialità del medium con cui interagisce; infatti, tutte quelle che si presentano senza farlo, diventano meno efficaci nel raggiungere questo scopo, rimanendo succubi della specificità del medium.
L’opera d’arte sembra entrare travestita da realtà nel nostro quotidiano e nello spazio domestico.

Nel suo saggio In defense of the Poor Image (2009) Hito Steyerl aveva discusso dello statuto dell’immagine digitale contemporanea, offrendo al riguardo spunti interessanti. Steyerl afferma: “L’immagine povera incarna la seconda vita di molti antichi capolavori del cinema e della videoarte. […] L’immagine povera non ha più nulla a che fare con l’opera reale, con l’originale iniziale. Ha a che fare invece con le proprie condizioni reali di esistenza: movimento a sciame, dispersione digitale, temporalità fratturate e flessibili” [8].
Incentivata dalle circostanze degli ultimi mesi, la produzione e condivisione frenetica di contenuti visivi non è sinonimo di accessibilità o di comprensibilità, ma piuttosto il contrario. Ci si trova in uno stato di ipervisibilità e moltiplicazione dove l’immagine perde il proprio senso favorendo la cecità dello sguardo per sovraesposizione (Pinotti e Somaini 2019, p.21).
Appare curioso che proprio poco prima che la pandemia costringesse alla chiusura degli spazi espositivi, la Galerie Thaddaeus Ropac avesse inaugurato nella sua sede londinese Life Captured Still, la prima doppia personale di Hito Steyerl e Harun Farocki. Come molte altre esposizioni con un ampio repertorio di film e video, la mostra in pieno lockdown ha trovato spazio nel sito della galleria. Il cambio di paradigma nella presentazione delle opere fa un certo effetto se si considera che la ricerca degli artisti si è concentrata anche sui rischi della cultura digitale a cui ci siamo sempre più affidati. Nel testo che introduce la mostra online, si legge: “Questo regime di emergenza – in cui le immagini sono comunque disponibili ma mancano della componente umana […] – offre una nuova vita, una nuova modalità di consumo dell’arte. È il momento di considerare le nostre reazioni, i nostri pensieri e i nostri commenti come parte dell’opera. In entrambi i casi, Harun e Hito hanno concepito in anticipo un tipo di lavoro con immagini in cui la presenza umana stava già svanendo, eppure l’impatto discorsivo sarebbe stato progressivamente assunto come parte dell’opera. Questo è uno di quei momenti in cui ci si mette in pari con ciò che le opere d’arte avevano già immaginato: l’arte della fine del mondo” [9].


Camilla Compagni
Miriam Rejas Del Pino
[1] Wallace, L. 2020, Some video art to enjoy at home while under coronavirus isolation. While museums and galleries are shut, take the time to dive into the rich online world of new media works, in “The Art Newspaper”, 19 marzo
(https://www.theartnewspaper.com/feature/video-art-to-enjoy-at-home-while-under-coronavirus-isolation)
[2] Bakare, L. 2020, ‘It’s great if you’re bored with Netflix’: video art flourishes in lockdown. From dogs’ plums to death metal shrieks, video artworks are finding a new audience hungry for culture that is accessible, original and bizarre, in “The Guardian”, 4 maggio
(https://www.theguardian.com/artanddesign/2020/may/04/its-great-if-youre-bored-with-netflix-video-art-flourishes-in-lockdown)
[3] Julia Stoschek Collection – Julia Stoschek presents her media art collection online, in “e-flux”, 18 maggio 2020
(https://www.e-flux.com/announcements/328571/julia-stoschek-presents-her-media-art-collection-online/)
[4] Balsom, E. 2020, A “small utopia”? Artists’ film and video online, in “Art-agenda”, 8 giugno
(https://www.art-agenda.com/features/334094/a-small-utopia-artists-film-and-video-online)
[5] Nei primi anni 2000, poco prima che Steyerl pubblicasse il suo rivoluzionario saggio, Harun Farocki aveva iniziato una ricerca che l’ha condotto a coniare il termine “immagine operativa” in riferimento a quelle immagini capaci di influire e influenzare la realtà, una prova del fatto che quello che si era inaugurato era un nuovo regime visivo.
[6] Si ritiene necessario in questo punto ricordare che le immagini, come le descrive Marin, in quanto presenza iconica, sono costitutivamente la presenza di un’assenza, l’assenza visibile, una rap-presentazione.
[7] Immagini nel campo espanso: L’an-iconologia secondo Andrea Pinotti, in “Kabul Magazine”, 3 luglio 2020
(http://www.kabulmagazine.com/immagini-campo-espanso-pinotti/)
[8] Steyerl, H. 2009, In Defense of the Poor Image, in “e-flux journal #10”, novembre
(https://www.e-flux.com/journal/10/61362/in-defense-of-the-poor-image/)
[9] Ehmann, A., Guerra, C., 2020, online exhibition guide, Galerie Thaddaeus Ropac
(https://www.ropac.net/lifecapturedstill/exhibitionguide)
Bibliografia
- Fontcuberta, La furia delle immagini: note sulla postfotografia, Giulio Einaudi Editori, Torino 2018
- A.Pinotti e A.Somaini, Teorie dell’Immagine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019
Sitografia
- http://www.ubu.com/
- Wallace, L. 2020, Some video art to enjoy at home while under coronavirus isolation. While museums and galleries are shut, take the time to dive into the rich online world of new media works, in “The Art Newspaper”, 19 marzo
(https://www.theartnewspaper.com/feature/video-art-to-enjoy-at-home-while-under-coronavirus-isolation)
- Bakare, L. 2020, ‘It’s great if you’re bored with Netflix’: video art flourishes in lockdown. From dogs’ plums to death metal shrieks, video artworks are finding a new audience hungry for culture that is accessible, original and bizarre, in “The Guardian”, 4 maggio
(https://www.theguardian.com/artanddesign/2020/may/04/its-great-if-youre-bored-with-netflix-video-art-flourishes-in-lockdown)
- Julia Stoschek Collection – Julia Stoschek presents her media art collection online, in “e-flux”, 18 maggio 2020
https://www.e-flux.com/announcements/328571/julia-stoschek-presents-her-media-art-collection-online/
- Immagini nel campo espanso: L’an-iconologia secondo Andrea Pinotti, in “Kabul Magazine”, 3 luglio 2020
(http://www.kabulmagazine.com/immagini-campo-espanso-pinotti/)
- Steyerl, H. 2009, In Defense of the Poor Image, in “e-flux journal #10”, novembre
(https://www.e-flux.com/journal/10/61362/in-defense-of-the-poor-image/)
- Ehmann, A., Guerra, C., 2020, online exhibition guide, Galerie Thaddaeus Ropac
(https://www.ropac.net/lifecapturedstill/exhibitionguide)
- Paglen, T. 2014, Operational Images, in “e-flux journal #59”, novembre
(https://www.e-flux.com/journal/59/61130/operational-images/)
- Allen, J. 2014, True Blue Or the Work of Images in the Age of Digital Reproduction, in “Mousse 43”, aprile-maggio
(http://moussemagazine.it/jennifer-allen-digital-reproduction-2014/)