AMATEURS OF THE WORLD, UNITE!

Il video amatoriale non è un documentario, non pretende di dire o ricostruire il vero. L’amatore è pronto davanti all’imprevisto, è posizionato perché sceglie di non rimanere indifferente. Non è un giornalista, non è neutrale né oggettivo, lui è lì e in quel momento. Vivo e acuto è lo sguardo, sgranata è l’immagine perché a essere risoluti sono il gesto e l’azione, a scapito della qualità. L’amatore è un martire della causa, la sua o quella di un altro, perché in ultimo la sua causa è farsi portavoce. 
Producendo immagini ovunque e in qualunque momento, l’amatore contemporaneo tiene traccia del mondo. Supera l’automazione, ma è tutt’uno con la macchina, è il suo occhio e l’occhio meccanico. Il cellulare è la protesi che lo lega al resto del mondo, in una sola rete che lo ha trasformato in un soggetto collettivo, che percepisce, pensa e reagisce (Andén-Papadopoulos 2013). Insieme abbiamo visto Neda Agha-Soltan morire in una strada di Teheran e George Floyd soffocare su un marciapiede di Minneapolis.
Da sempre “per ‘sapere’ e per ‘ricordare’ occorre immaginare” (Guerri, Parisi 2013, p. 177), è l’immagine che crea l’evento e lo affida alla comunità. Senza, il nostro è un pensiero cieco. Non erano fotografi i Sonderkommando che riuscirono a strappare le poche immagini che possediamo dello sterminio avvenuto nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Non erano storici né cronisti; le fotografie che hanno prodotto sono sfocate, imperfette, oblique e per questo tanto più preziose, perché riferiscono della precarietà della loro posizione e della pericolosità del loro gesto. Ci hanno consentito di dare un’immagine a ciò che sembrava impossibile immaginare, la vita valeva per loro quanto la testimonianza che hanno garantito.
L’amatore capisce la potenza viva dell’immagine, del video e conosce la grammatica elementare del montaggio. L’amatore del passato il più delle volte non aveva la possibilità di condividere direttamente il proprio girato, gli amatori di oggi vogliono il film collettivo, richiedono l’interazione.

Frame dal video amatoriale della morte di Neda Agha-Soltan, avvenuta durante le proteste post-elettorali di Teheran del 20 giugno 2009.

Qualcosa è cambiato alla fine degli anni Novanta, quando in Giappone hanno cominciato a circolare i primi cellulari con videocamera integrata (Wellner 2013). Nel 2004 nasce Facebook e nel 2005 YouTube, Instagram è del 2010. Il mondo si è riempito di immagini, le immagini lo hanno plasmato. 
Come i Kinoki del cineasta Dziga Vertov (1896-1954), oggi abbiamo a disposizione un occhio meccanico, performante più di quanto Vertov avrebbe mai osato sperare, capace davvero, come lui avrebbe desiderato, di confrontare “tra loro tutti i punti dell’universo”, così da generare “una nuova percezione del mondo” per poterlo decifrare in un modo inedito (Angelucci 2009, p.62). L’occhio meccanico di Vertov è comunque molto diverso da quelli che abbiamo oggi a nostra disposizione, dal carattere ubiquo, a volte anche incarnato (Arcagni 2018). Le nuove tecnologie del virtuale come l’Augmented Reality (AR) consentono forme inedite di disobbedienza civile, sfruttando una tecnologia alla portata di tutti e diffusa ormai su scala mondiale. Scaricando un’app sul proprio smartphone si possono condividere contenuti digitali collocati nello spazio pubblico, anche dall’altra parte del mondo, coordinando una collettività in tempo reale e spingendola a interagire (Geroimenko 2018). Se i detrattori delle pratiche politiche in AR sono convinti che questa porti ad adagiarsi su un “attivismo da poltrona”, esempi di collettivi artistici politicamente impegnati come Movers and Shakers (https://www.moversandshakersnyc.com/team-3) con il loro progetto The Monuments Project (in uscita nel 2021) dimostrano il contrario.
Gli amatori sono stati dotati di nuovi mezzi, non solo la fotocamera, non solo la videocamera, ma una piattaforma sempre attiva, interconnessa e aperta a tutti.
A ciascuno è data la possibilità di essere testimoni, ma non ogni amatore è impegnato. Se dire qualcosa sulla pubblica piazza è di per sé un atto politico, l’amatore deve decidere da che parte stare. Parla in pubblico, è vero, ma utilizza un sistema che produce ricchezza e interesse. La libertà associata al suo gesto non corre di pari passo con un parere informato. Il proliferare di immagini sul mondo non corrisponde a un aumento di informazione, può consentire con facilità la circolazione di idee violente e infondate. Lo dimostrano, ad esempio, le reazioni dei negazionisti alla pandemia di Covid-19 ancora in corso, cui non si può sottrarre uno spazio di espressione a risonanza globale. Il sogno di un popolo di kinoki schierati, liberi, combattenti è tanto affascinante quanto inverosimile, date le caratteristiche open source proprie dello spazio digitale. Alla possibilità apparentemente totale di partecipazione, consegue logicamente il rischio di scarso filtro critico.

Frame da "Il cineocchio" (Kinoglaz), Dziga Vertov, 1924.

L’immagine contemporanea cui facciamo riferimento ha la peculiare caratteristica non solo di registrare un evento, ma di contribuire alla sua effettiva creazione e distribuzione. Il potere di tale immagine sul mondo, su tutti noi, sulle nostre idee e sui movimenti sociali e politici, segue a pieno titolo un regime economico. Il concetto di Visual Culture solo parzialmente ritrae il potere agentivo dell’immagine, che può essere compreso con maggior precisione se fatto rientrare nella nozione di Visual Economy (Poole 1997). Il termine permette di intendere il campo della visione come qualcosa che “ha a che fare con relazioni sociali, disuguaglianza e potere” (Poole 1997, p. 8), piuttosto che delimitarlo a quello della rappresentazione e dell’informazione.
Prima della diffusione dei device mobili, il campo testimoniale rispettava uno schema necessario all’economia dell’informazione dell’epoca: la testimonianza oculare passava per lo scrutinio di diversi mediatori (come le agenzie stampa) prima di arrivare al pubblico generico. Il percorso dell’immagine testimoniale ha subito dunque un complesso stravolgimento con l’avanzamento tecnologico. La possibilità non solo di registrare in autonomia un evento, ma trasmetterlo in tempo reale attraverso un’infrastruttura come quella dei social network, definisce un capitale visuale dall’alto potenziale sociale, affidato (almeno apparentemente) agli utenti stessi.
L’integrazione della videocamera nei device mobili ha letteralmente rivoluzionato quel testimonial field che per decenni l’establishment dell’informazione aveva assicurato. Nel contesto visuale contemporaneo le registrazioni (in particolar modo di materiale audiovisivo in movimento) rivestono un ruolo centrale nella determinazione di quali specifici eventi avranno una copertura mediatica massiva e, conseguentemente, quali saranno più rilevanti su una scala geopolitica internazionale.
Tali modalità di registrazione e condivisione definiscono e potenziano il ritualismo che ruota attorno alle immagini testimoniali. Esso è costituito dalle pratiche del mostrare, raccontare, commentare, criticare e unirsi intorno a immagini, che permettono al pubblico, vicino e lontano, di rispondere collettivamente agli eventi di crisi globale, come preludio all’assunzione di responsabilità (Andén-Papadopoulos 2013). L’immagine amatoriale ha certamente un potenziale sovversivo, ma  è pur vero che, oggi più che mai, le infrastrutture di condivisione risultano pienamente inglobate in una logica di profitto e di influenza politica attiva e predeterminata. Ciò, a nostro avviso, non implica un fallimento o un impoverimento della capacità d’azione dell’immagine testimoniale e amatoriale contemporanea, ma problematizza ulteriormente le sue conseguenze sul mondo.

Preview del progetto The Monument Project, di Movers and Shakers, 2021.

I nostri sono tempi che richiedono amatori attenti. L’arte lo sa e risponde, sfrutta il video amatoriale come strumento di espressione. Diversi esempi artistici ci confermano le potenzialità mediatiche e politiche dell’immagine amatoriale, il suo potere sociale, la capacità di creare collettività attraverso l’esperienza personale. È il caso dell’artista Sadie Benning, che fin dall’adolescenza utilizza la videocamera giocattolo Fisher Price Pixelvision per produrre filmati amatoriali attraverso i quali registrare spontanei momenti di autocoscienza corporea e sessuale. Lavori come Living Inside (1989), If Every Girl Had a Diary (1990) e It Wasn’t Love (1992) confermano la forza estetica di materiale prodotto al di fuori del contesto professionale, la cui agentività specifica nella connessione di straordinaria potenza alla percezione corporea, se non addirittura carnale, del suo pubblico. Così come Benning anche Tom Joslin, nonostante fosse già un artista affermato, ha scelto di utilizzare il video amatoriale per Silverlake Life: The View From Here (1991). Un home video a tutti gli effetti, che racconta la convivenza quotidiana con l’AIDS dell’artista e del suo compagno Mark Massi. Il medium amatoriale subisce in questo caso una doppia sovversione: non esclusivamente la fuoriuscita del materiale privato, reso pubblico dall’operazione artistica, ma soprattutto lo smantellamento del bagaglio sociale che l’home video ha portato con sé, fortemente associato all’ideale di famiglia borghese, bianca, sana ed eterosessuale. Come ci confermano le pratiche di questi artisti, non è stata solo una evoluzione dal punto di vista tecnologico a generare un cambiamento. L’amatoriale attraversa i confini delle mura domestiche e della singola soggettività anche grazie allo slittamento determinato negli anni ‘70 da specifiche politiche sociali, sia collettive che identitarie, specialmente di stampo femminista, che introducono il personale come mezzo decisivo di rivendicazione politica.
Gli artisti non utilizzano solamente il loro girato personale, ma sfruttano spesso la registrazione amatoriale di altri, che si tratti di home video o di video di protesta, facilmente reperibili in rete.   Dalle otto di sera del 28 giugno 2020, per quarantotto ore, l’opera video Love is the Message, the Message is Death (2016) di Arthur Jafa è stata trasmessa continuativamente e simultaneamente in streaming in tredici diverse istituzioni artistiche sparse per il mondo. Trasformato per due giorni in una litania, in una preghiera condivisa, il lavoro di Jafa è nato nel 2016 in risposta all’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Donald Trump. È l’artista stesso a parlare della sua opera come di uno scavo nel mare di video amatoriali che affollano i social e YouTube. Al suo interno Jafa cerca di ricostruire, e condensare in sette minuti, una costellazione visiva di espressioni dell’America nera, del movimento dei corpi, del modo di abbigliarsi, della violenza da sempre subita, della forza esercitata. Si tratta di un dialogo interno alla comunità afroamericana, che muove dalla sua autonarrazione alla ricerca di Pathosformeln tratti da un atlante video in continua evoluzione, perché, come afferma Jafa stesso, “improvvisamente la gente ha cominciato a filmare ogni cosa” (https://www.youtube.com/watch?v=su48ngKNpwc&feature=emb_title).
L’opera non è un’analisi politica della società americana, ma è politica perché prende una parte, generando una reazione emotiva. Non è un caso che questa iniziativa, voluta dall’Hirshhorn Museum e dallo Smithsonian American Art Museum, che hanno acquisito il lavoro di Jafa nel 2018, arrivi nel 2020, anno in cui è esploso il movimento Black Lives Matter.
Black Lives Matter è stato generato, voluto e sostenuto dagli amatori. Nasce nel 2013 come un hashtag in risposta alla morte violenta, e lasciata impunita, di Trayvon Martin, un ragazzo afroamericano di diciassette anni ucciso da un poliziotto bianco. 

Frame da "Living Inside", Sadie Benning, 1989, © 2020 Sadie Benning. Courtesy Video Data Bank, School of the Art Institute of Chicago.

La tecnologia è spesso impiegata con successo per reprimere la manifestazione del dissenso, è bene tenerlo a mente, ma come dimostra anche il caso delle rivolte di Hong Kong, iniziate nell’aprile del 2019 in reazione all’approvazione della legge sull’estradizione, può essere utilizzata per organizzare la protesta. Per sfuggire meglio alla sorveglianza delle autorità, le tattiche di resistenza vengono stabilite giorno per giorno su Telegram, Instagram e Lihkg. Conversazioni, video e immagini vengono condivise dai singoli per scambiarsi informazioni e per coordinarsi, senza fare affidamento sui mezzi di informazione canonici e ufficiali. Si è generato un movimento “open source” (https://www.internazionale.it/notizie/2019/08/21/rivolta-collettiva-hong-kong), attrezzato per continuare online in tempi di pandemia.
Non stupisce perciò che Silence is Compliance sia il nome di due progetti online tra loro distinti. Uno è un database, pensato per riunire e rendere fruibili una grande quantità di risorse online, dalle petizioni agli account Instagram, con il duplice intento di supportare il movimento Black Lives Matter e di educare informando sulla storia dell’ingiustizia razziale. L’altro è un progetto internazionale nato a sostegno delle proteste di Hong Kong per raccogliere materiale da artisti, ricercatori e cittadini messo insieme e condiviso in rete per raccontare i fatti a un anno dal loro inizio. Le immagini sono strumento per narrare, affermarsi, per organizzarsi e operare nella realtà.
La tecnologia è un pharmakon dal carattere di irriducibile ambiguità, poiché rappresenta al contempo un veleno e il suo rimedio (Stiegler 2015). Non verrà il giorno in cui sarà da prendere una scelta manichea: per la tecnologia o per il suo contrario. La storia della tecnica è stretta a doppio giro con quella dell’essere umano. Il digitale è una delle sue più recenti manifestazioni, abbandonarsi alla convinzione che possa soltanto essere potentemente utilizzato contro i più ha il sapore nostalgico, trito e ritrito di un discorso sterile dai toni apocalittici. L’inattività e la lamentazione non sortiranno alcun effetto, di questo siamo sicuri. Conviene piuttosto impiegare le proprie energie intellettuali nella presa di coscienza di possibilità e limiti dei media contemporanei nell’ottica dell’elaborazione di una “farmacologia positiva”, che impegni allo stesso modo artisti, ingegneri e ogni tipo di specialisti nella ricerca di nuove forme e modi di utilizzo della tecnologia perché possa essere il più possibile al servizio della collettività (Vignola in Stiegler 2015).
Il collettivo è sempre di più un collettivo globale, i dati che produce minacciano di sfuggire al controllo del singolo per qualità e quantità. Le tecnologie digitali e le piattaforme di condivisione online sono di certo strumenti di controllo, ma precisamente di assumere il controllo si tratta. Le immagini digitali continueranno a operare sul mondo, sta a noi capire come. Il digitale non promette di scomparire: un’arte digitale, una testimonialità digitale, una coscienza digitale sono dunque necessarie.
Amatori di tutto il mondo, unitevi! Un occhio comune vede più cose, lascia più spazio al pensiero, alla parola e all’azione. 

Installation view di Love Is The Message, The Message Is Death, Arthur Jafa, 2 Aprile – 12 Giugno, 2017 presso The Geffen Contemporary at MOCA, courtesy The Museum of Contemporary Art, Los Angeles, foto di Brian Forrest

Roberto Malaspina
Sofia Pirandello

Bibliografia

  • Anden-Papadopoulus, K 2013, Citizen camera-witnessing: Embodied political dissent in the age of ‘mediated mass self-communication’, in “new media & society”  2014, Vol. 16(5), pp. 753–769.
  • Angelucci, D 2009, Estetica e cinema, Il Mulino, Bologna.  
  • Arcagni, S 2018, L’occhio della macchina, Einaudi, Torino.
  • Flusser, V 2004, La cultura dei media, Mondadori, Milano. 
  • Fox, B 2004, Rethinking the Amateur: Acts of media production in the digital age, in Spectator 24:1, Spring, pp. 5-16. 
  • Geroimenko, V 2018, Augmented Reality Art. From an Emerging Technology to a Novel Creative Medium. Second Edition, Springer.
  • Guerri, M, Parisi F 2013, Filosofia della fotografia, Raffaello Cortina Editore, Milano. 
  • Montani, P 2014, Tecnologie della sensibilità, estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Poole, D 1997, Vision, Race and Modernity: A Visual Economy of the Andean Image W, Princeton University Press, Princeton.
  • Somaini, A, Pinotti, A 2016, Cultura visuale. Immagini Sguardi Media Dispositivi, Einaudi, Torino.
  • Stiegler, B 2015, Platone digitale, Mimesis, Milano-Udine.
  • Wellner, G 2013, No Longer a Phone: The Cellphone as an Enabler of Augmented Reality, in Transfers 3 (2), pp. 70-88

 

Sitografia